Quante Storie: non solo Instagram

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Quante Storie: non solo Instagram

La vita non si può spiegare: allora la raccontiamo.  E anche le storie diventano “social”.

La vita non si può spiegare: allora la raccontiamo.  E anche le storie diventano “social”.

Le storie. Le raccontiamo da sempre e abbiamo inventato mille modi diversi per farlo. C’era una volta… la Bibbia, il più antico racconto esistente, la narrazione della creazione, del quando tutto cominciò e prese forma.

Ma le storie, oltre che “spiegare”, possono divertire, intrattenere, tramandare cose che altrimenti sarebbero andate perse nel tempo. Chi non ricorda la figura del cantastorie o giullare che girava per le strade dei villaggi recitando o cantando composizioni poetiche popolari, rielaborando e diffondendo leggende, accompagnandosi con la chitarra, l’organetto o un altro strumento musicale?  

È con il Decameron di Boccaccio che la storia diventa novella, intesa appunto come qualcosa di nuovo, e trova la sua forma perfetta, emancipandosi dai generi medievali e attestandone il carattere realistico. Elementi che rimarranno costanti nei continuatori del genere, come dimostra ad esempio Geoffrey Chaucer nelle sue Canterbury Tales, e Miguel de Cervantes, autore de Novelas ejemplares, (1613).

Ma perché raccontiamo storie? Da cosa nasce questo bisogno?

«La finzione […] è un’antica e potente tecnologia di realtà virtuale che simula i grandi dilemmi della vita umana». Questa è la risposta che prova a dare Jonathan Gottschall nel suo libro L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani. Raccontando storie, ad esempio, i bambini imparano a gestire i rapporti sociali; con le fantasie a occhi aperti esploriamo mondi alternativi che sarebbe troppo rischioso vivere in prima persona, ma che risulteranno utilissimi nella vita reale.

Cosa ci succede infatti quando “incontriamo” una storia? Quando ascoltiamo, leggiamo o guardiamo una storia, il nostro cervello si attiva come se quello che sta succedendo al protagonista stesse succedendo a noi. «La nostra mente si attiva e determina nuove connessioni neurali, preparando le vie nervose che regolano le nostre risposte alle esperienze di vita reale». In pratica, ascoltiamo storie e ci alleniamo per la vita vera. Non ci deve meravigliare quindi, come oggi, anche nei social network il ruolo delle “storie” sia diventato così preponderante

Il primo social a “raccontare storie” è stato Snapchat: la sua prima versione, infatti, si basava sulla condivisione di foto da persona a persona grazie all’impostazione “Storie”. È stata poi la volta di Facebook dove è ora possibile caricare video e foto che scompaiono dopo 24 ore. Lo stesso succede su Instagram. E su WhatsApp dove si può aggiornare il proprio stato, creando una specie di storia con foto, video e gif che scompare dopo 24 ore.

Noi siamo quasi ossessionati oggi nel raccontare più Storie possibili alle persone giuste, usando le varie piattaforme a nostra disposizione, ma soprattutto a farlo sempre in maniera perfetta. E così, a dispetto della chiusura delle favole… e vissero felici e contenti… questa ricerca della perfezione nell’immagine condivisa rischia davvero di renderci infelici. È proprio la ricerca di questa perfezione, infatti, a metà strada tra realtà e finzione, che ci costringe a una corsa interminabile verso il raggiungimento di stili di vita ideale, impeccabile, in un eterno confronto con gli altri utenti. Alimentando in alcuni di noi sensi di inadeguatezza e bassa autostima.

Nel 1911 Marino Moretti nella sua poesia scriveva:

Io non ho nulla da dire

Aver qualche cosa da dire
nel mondo a se stessi, alla gente.
Che cosa? Io non so veramente
perché io non ho nulla da dire.

Noi oggi siamo storie che non hanno nulla da raccontare. O meglio siamo storie a “tempo”. Giusto il tempo di un giro di lancette: 24 ore.