Capitalocene contro Antropocene: il vero colpevole della crisi climatica

Avatar photo
Environment


Capitalocene contro Antropocene: il vero colpevole della crisi climatica

Non tutta l’umanità ha lo stesso peso nella devastazione del pianeta. Jason Moore e altri studiosi ribaltano la prospettiva: non siamo “noi” a distruggere la Terra, ma un sistema preciso: il capitalismo.

Un’era geologica caratterizzata dal fatto che a condizionare in modo determinante l’ambiente terrestre è l’umanità, cioè l’uomo con le sue attività: questo significa il termine Antropocene. A utilizzarlo ufficialmente per la prima volta furono un quarto di secolo fa il premio Nobel per la Chimica, l’olandese Paul Crutzen, e il biologo statunitense Eugene Stoermer. Nella newsletter del maggio del 2000 di IGBP (International Geosphere-Biosphere Programme) in cui lo lanciarono, scrivevano che considerando gli impatti significativi e in continua crescita delle attività umane sulla Terra e sull’atmosfera, pareva loro appropriato utilizzare quel termine per indicare l’attuale era geologica. Che in pratica mandava in soffitta l’Olocene, l’era geologica iniziata circa 12mila anni fa.

Da allora il dibattito sull’Antropocene non si è mai fermato, spesso assumendo toni accesi. In particolare, gli esperti discutevano su quale fosse il periodo, se non proprio la data, dal quale far partire la nuova era. Una delle proposte era di fissarne l’inizio a cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso, quando gli esperimenti nucleari condotti presero a lasciare la loro impronta sul pianeta in termini di sostanze radioattive. Un’altra guardava, invece, alla rivoluzione industriale e in particolare alla metà del XIX secolo, quando l’utilizzo del carbone e poi degli altri combustibili fossili come motori del processo di industrializzazione si fece massiccio su scala globale (la crescita della concentrazione di gas serra in atmosfera è stata considerata uno dei “marcatori” della nuova era geologica).

Alla fine, però, l’ufficializzazione non è arrivata. La Commissione Internazionale sulla Stratigrafia, organismo dell’Unione internazionale delle scienze geologiche, ha deciso di respingere la proposta di considerare tecnicamente l’Antropocene una nuova era geologica. Ma ormai il concetto di Antropocene si era diffuso: aveva fatto presa a livello culturale (basti vedere la fioritura di riviste sul tema, quali The Anthropocene Review o Elementa: Science of the Anthropocene), nell’opinione pubblica, era entrato nell’immaginario collettivo. Anche perché è impossibile negare, e gli scienziati sono i primi a dirlo, l’impatto prodotto sulla Terra dalle attività umane, e dire che siamo nell’Antropocene è un modo semplice e sintetico per esprimerlo.

Ma proprio quando il concetto di Antropocene aveva in un certo senso vinto la sua battaglia, ha dovuto fronteggiare la critica più radicale. A muovergliela, tuttavia, non è stato un gruppo di geologi più agguerrito degli altri, bensì un altro concetto che ha iniziato a prendere piede. Quello di Capitalocene.

A sviluppare il concetto di Capitalocene in polemica con quello di Antropocene è stato Jason W. Moore, docente di Sociologia all’Università di Binghamton, nello Stato di New York, storico e storico ambientale geografo, come si definisce sul proprio sito, e coordinatore della rete di ricerca World-Ecology Research Collective. Moore ha spiegato in dettaglio la sua critica all’Antropocene nel volume Antropocene o capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria (Ed. Ombre Corte). Sul suo sito si possono trovare anche gli scritti in cui ha originariamente esposto il suo pensiero (The Capitalocene, Part I: on the nature and origins of our ecological crisis e The Capitalocene Part II: accumulation by appropriation and the centrality of unpaid work/energy). Di recente ne ha parlato in un intervento alla prima International Conference on Climate Actions and Just Transition, che è stata organizzata nell’aprile di quest’anno dal Just Fossil Fuel Transitions Jean Monnet Centre of Excellence dell’Università di Padova.

La critica di Moore non riguarda le questioni geologiche, non prende cioè di mira l’Antropocene come possibile nuova era geologica. Contesta, invece, quella che chiama l’Antropocene “alla moda”, l’idea che è appunto entrata in circolo al di fuori delle definizioni e dei contesti scientifici. Perché la ritiene un’idea pericolosa, che oscura più di quanto illumini. Bene che faccia luce sull’intensità e pervasività degli impatti dell’attività dell’uomo sui processi terrestri. Ma che cosa oscurerebbe? Il fatto che il degrado ambientale, la crisi climatica, l’enorme impatto negativo – che non si può ovviamente negare – che le attività dell’uomo hanno avuto sugli equilibri del pianeta, non si possono ascrivere a un’idea astratta e indistinta di umanità. Perché questo costituisce una banalizzazione e insieme una visione riduzionistica delle origini della crisi attuale.

Le responsabilità della situazione in cui ci troviamo vanno dunque cercate altrove. Dove? Nel modo di produzione capitalistico che ha preso forma a partire da metà XV secolo, con l’inizio dello sfruttamento sistematico delle risorse umane e ambientali offerte dai territori coloniali. A caratterizzare l’era del capitale sono stati cioè i rapporti costitutivi del modello capitalistico, che hanno privilegiato l’accumulazione infinita del capitale rispetto a ogni altra cosa, appropriandosi e sfruttando il lavoro degli uomini come quello della natura, e provocando disuguaglianze strutturali. Degrado ambientale e crisi climatica, quindi, non devono dirsi antropogenici, bensì capitalogenici, perché le loro radici sono da ricercare non in un astratto “anthropos”, nell’azione dell’umanità tutta, ma in secoli di dominio del capitale. E vanno lette, ancora, non in astratto ma in una prospettiva storica e politica, cioè alla luce dei rapporti di potere di cui il capitalismo ha beneficiato.

Riguardo in particolare alla natura, Moore considera mistificatoria l’impostazione dualistica che vuole la società, l’uomo, da una parte, e la natura dall’altra. Perché tale impostazione ha legittimato il dominio, la predazione e lo sfruttamento senza limiti della seconda a vantaggio della prima: la subordinazione, cioè, della natura (a buon mercato se non gratuita, quando oggetto di appropriazione con la forza) alle necessità della produzione e all’accumulazione di ricchezza. Il capitalismo sarebbe dunque un regime anche ecologico, di governance dell’ambiente globale, finito in bancarotta perché fondato sull’utopia della crescita infinita. Per questo Moore in riferimento al capitalismo parla di ecologia-mondo: non semplicemente un sistema economico all’interno di un sistema sociale e naturale più ampio, ma un unico sistema che si è nutrito e ha sfruttato le relazioni tra accumulazione del capitale, potere e produzione della natura, considerate in una dimensione storica e globale.

Moore non è stato comunque l’unico a mettere nel mirino l’Antropocene. In sua compagnia ci sono voci di intellettuali molto quotati nell’ambito della critica al modello di sviluppo dominante e ai suoi acclarati effetti sul pianeta. È il caso ad esempio di Andreas Malm, professore di ecologia umana, attivista per il clima e saggista, che parla di “mito” dell’Antropocene. Anch’egli affermando che dare la colpa della crisi climatica all’umanità intera significa esentare il capitalismo dalle sue responsabilità.

In Italia si segnala il saggio-manifesto L’ inconscio è il mondo là fuori. Dieci tesi sul capitalocene: pratiche di liberazione, di Gianni Vacchelli, narratore, scrittore e docente. Dove si afferma che il capitalocene è un sistema-mondo, non solo economico ma dell’esistenza tutta, iniquo e non sostenibile, che non ha futuro. Ma non bisogna illudersi che finirà per automatica implosione. La sua fine richiederà il nostro impegno. Tradotto, la nostra lotta.

Avatar photo

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​