Siamo tutti vittime allo stesso modo della crisi climatica?

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Siamo tutti vittime allo stesso modo della crisi climatica?

La risposta è no perché non c’è dubbio che i più poveri e deboli siano i più colpiti. C’è un tema di responsabilità che diventa stringente se si guarda a come le luxury emissions alimentano il climate change.

Quando si tratta di crisi climatica, è proprio vero che siamo tutti sulla stessa barca? Dipende. Se il senso della domanda è che viviamo tutti sullo stesso pianeta, non si può che rispondere affermativamente. Ma la risposta cambia se cambia il senso della domanda. Ad esempio, così: siamo tutti colpiti dalla crisi allo stesso modo? Ovviamente no, com’è di solare evidenza. Perché il collasso climatico in corso colpisce di più i più poveri e deboli, i meno attrezzati a prevedere, assorbire, adattarsi al clima in rapido mutamento. Lo scriveva già dieci anni fa Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’ (par. 25): «Molti poveri vivono in luoghi particolarmente colpiti da fenomeni connessi al riscaldamento, e i loro mezzi di sostentamento dipendono fortemente dalle riserve naturali e dai cosiddetti servizi dell’ecosistema (..) Non hanno altre disponibilità economiche e altre risorse che permettano loro di adattarsi agli impatti climatici».

La risposta è ancora negativa se la domanda riguarda le responsabilità per quello che sta accadendo. Lo ha riconosciuto lo stesso Accordo di Parigi, che ha nel principio delle responsabilità comuni ma differenziate uno dei suoi pilastri: i Paesi che storicamente hanno contribuito di più in termini di emissioni di gas serra, devono fare di più per il clima.

Responsabilità differenti: cosa dice lo studio di Nature

Una cosa su cui, però, di solito si pone un po’ meno la lente è che anche all’interno dei singoli Paesi, che siano più o meno industrializzati o avanzati, c’è differenza nelle responsabilità, e non piccola: fra chi coi suoi comportamenti di acquisto, consumo, investimento, più in generale col suo stile di vita, contribuisce di più alle emissioni di gas serra, e chi di meno. In questo senso, ad avere di gran lunga le maggiori responsabilità sono i ricchi e soprattutto i ricchissimi. E la differenza è così siderale che si può parlare della crisi climatica come di una crisi rich-driven.

A mettere in circolo tale questione nel dibattito pubblico è stato un crescente numero di studi a livello globale. Dai quali è emerso in modo netto che no, non siamo affatto tutti sulla stessa barca. E soprattutto non stiamo remando tutti nella stessa direzione.

Uno studio particolarmente significativo su Nature Climate Change, realizzato da ricercatori austriaci: s’intitola “High-income groups disproportionately contribute to climate extremes worldwide” e i suoi risultati non lasciano spazio a fraintendimenti.

Nei trent’anni fra il 1990 e il 2020, dice lo studio, due terzi del riscaldamento globale si possono attribuire al 10% più ricco della popolazione mondiale. Addirittura, un quinto del riscaldamento globale è attribuibile solo all’1%, i più ricchi fra i ricchi. In termini di responsabilità individuali, ciò significa che il contributo al riscaldamento globale di chi appartiene al 10% più ricco del pianeta vale 6,5 volte il contributo medio pro-capite. Per i ricchissimi che rientrano nell’1%, il rapporto sale a 26 volte. Il dito è puntato in particolare verso il 10% più ricco negli Stati Uniti e in Cina: le loro emissioni hanno moltiplicato da due a tre volte i picchi di calore nelle regioni più vulnerabili del pianeta, tra l’altro le meno responsabili storicamente della crisi climatica.

Se il livello di emissioni medie pro-capite, afferma sempre lo studio, fosse stato pari a quello del 10% più ricco della popolazione, dal 1990 la temperatura media globale sul nostro piccolo pianeta sarebbe aumentata di quasi 3°; estendendo a tutti le emissioni del’1% più ricco, l’aumento sarebbe stato di 6,7°; prendendo a riferimento lo 0,1% più ricco, si sarebbe già oltre i 12° di aumento. Per contro, se tutti avessimo avuto un livello di emissioni come quello del 50% più povero del mondo, l’aumento nelle temperature sarebbe stato trascurabile e quindi non saremmo nella situazione drammatica in cui ci troviamo. Perché nel solo 2019, ad esempio, il 50% più povero della popolazione mondiale è stato responsabile solo di un decimo delle emissioni globali, mentre le emissioni del 10% più ricco ne hanno rappresentato quasi la metà.

Un tema di giustizia sociale

L’enorme disparità nei livelli di emissioni pone dunque un colossale tema di giustizia o, meglio, di ingiustizia climatica, come affermano gli stessi autori dello studio. In linea, del resto, con ciò che denunciano da tempo organizzazioni come Oxfam, attraverso rapporti (da “Carbon inequality in 2030” a “Climate equality: a planet for the 99%”, al più recente “Carbon inequality kills”, che ha passato al setaccio l’impatto climatico di yacht, jet e investimenti di 50 super-miliardari del mondo) e iniziative come la giornata dell’inquinatore che intendeva sensibilizzare sul fatto che, dopo appena dieci giorni dall’inizio del 2025, l’1% dei più ricchi del pianeta aveva già esaurito il proprio carbon budget (la quota di emissioni a disposizione per restare dentro i limiti dell’Accordo di Parigi).

Non è un caso, allora, se Friederike Otto, scienziata del clima, fra i massimi esperti al mondo sul tema della cosiddetta scienza dell’attribuzione (studia quanto il verificarsi di eventi meteorologici estremi può essere attribuito ai cambiamenti climatici), ha intitolato proprio Ingiustizia climatica un suo lavoro di recente pubblicazione in Italia. Dove al centro della riflessione c’è proprio il tema delle disuguaglianze, di cui la crisi climatica è un potentissimo amplificatore.

La differenza tra emissioni di sussistenza e di lusso

Per dirla con un’altra fra le voci più autorevoli e provocatorie su questi temi nel panorama internazionale, quella dello svedese Andreas Malm, professore di ecologia umana, attivista per il clima e saggista (ne parla nel suo libro Come far saltare un oleodotto), la questione è quella di distinguere fra le emissioni di sussistenza e le luxury emissions, legate a beni e servizi di lusso. Le prime dipendono da scelte obbligate, di chi per questioni di sopravvivenza non può che optare per i beni e servizi più a buon mercato, che però assai difficilmente sono anche climate-friendly. E su queste è molto difficile incidere. Le seconde, su cui invece si dovrebbe incidere ampiamente, sono riferite ai beni e servizi di lusso, a impatto climatico spesso elevato per non dire devastante, a cui ricchi e soprattutto super-ricchi sembrano non saper riunciare anche se potrebbero tranquillamente farlo.  Qualche esempio? Jet privati (nel mirino dell’account Instagram ”Jet Dei Ricchi”), mega-yacht, SUV (che lo stesso IPCC cita nei suoi report come esempi di consumi altamente impattanti sul clima) e investimenti in fonti fossili o comunque in settori e attività economiche dall’impronta climatica importante.

Quali sono le soluzioni possibili

Per affrontare questa ingiustizia climatica, si sa benissimo cosa andrebbe fatto: regolamentare, limitare (in alcuni casi c’è chi propone di mettere al bando), tassare adeguatamente i beni e servizi di lusso più inquinanti, per disincentivarne l’utilizzo. E poi agire sul lato culturale: che cosa succederebbe, ad esempio, se il volo nello spazio, altrimenti detto turismo spaziale, diventasse il prossimo “must” dei super-ricchi? Non è difficile immaginarlo: c’è chi ha stimato che un volo nello spazio possa arrivare a emettere tra le 50 e le 100 volte la CO2 di un volo di linea a lungo raggio, che già non scherza come impatto sul clima.

Ci possiamo permettere, climaticamente parlando, centinaia o magari migliaia di super-ricchi che smaniano per provare l’ebbrezza del giretto in orbita che alcuni dei più noti Paperoni del pianeta, da Elon Musk a Jeff Bezos, stanno cercando di far diventare di moda? Il “dipende”, qui, è superfluo.

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Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​