Dal campo alla tavola
In un’epoca nella quale la sostenibilità ambientale e la salute del nostro pianeta sono, o dovrebbero essere prioritarie, le nostre scelte alimentari assumono un’impor
Qual è il momento giusto per dare lo smartphone in mano ai propri figli? La domanda assilla magari non tutti ma sempre più genitori, insegnanti, in generale educatori. E inizia a farsi pressante di solito quando i ragazzi affrontano il passaggio dalle scuole elementari alle medie.
Un modo di guardare alla questione è in una prospettiva normativa, regolamentare, giuridica. Ci sono Paesi che hanno vietato l’utilizzo di smartphone in classe: o per legge, come ad esempio la Francia e la Corea del Sud, che ha limitato l’uso degli smartphone per i minori addirittura fino ai 19 anni (caso particolarmente significativo dato l’elevatissimo tasso di penetrazione degli smartphone nel Paese), o su iniziativa dei ministri dell’Istruzione, come i Paesi Bassi (per le scuole superiori) e recentemente l’Italia (per elementari e medie). C’è l’Unesco che ha invitato a introdurre un divieto globale in tal senso. E crescono, soprattutto negli Stati Uniti, le cause che non solo genitori e famiglie ma anche vaste coalizioni di scuole pubbliche, come a Seattle, e persino Stati avviano (clamorosa la causa di 33 Stati americani contro Meta e in particolare Instagram) mettendo nel mirino i big dei social media con l’accusa che l’utilizzo di smartphone e soprattutto social media provoca dipendenza e depressione nei più giovani.
Mettendo da parte leggi e tribunali, però, spesso chi è chiamato a decidere lo fa in base alla propria opinione, che di solito oscilla tra due estremi. Da una parte c’è chi è in massimo allarme, perché vede nello smartphone uno strumento quasi diabolico, per cui ritiene che più il momento di fare questo passo si riesce a posticipare, meglio è: fenomeni come il sexting, ormai dilagante fra gli adolescenti (non riguarda solo immagini e video ma anche contenuti audio), e il cyberbullismo, su cui in Italia si è legiferato già nel 2017 (legge 71/2017), certo non aiutano ad abbassare il livello d’allarme. Dall’altra c’è chi minimizza, perché ritiene che sia un passo inevitabile, dato che il mondo sia sempre più digitale e interconnesso e il nostro modo di relazionarci con esso passa in modo crescente attraverso lo schermo di uno smartphone, e per giunta pensa che chi prima impara a usarlo sviluppando competenze specifiche, più sarà avvantaggiato nella vita.
Non tutti, però, nel formarsi un’opinione tengono conto di un elemento fondamentale: le evidenze scientifiche sull’impatto dell’uso dello smartphone, specie fra gli adolescenti e i preadolescenti. Che ormai sono sempre più corpose e soprattutto in larghissima misura concordi nell’affermare in sostanza che l’uso dello smartphone, in particolare se inizia appunto in età troppo tenera, se è troppo prolungato, senza regole e senza supervisione, può creare danni a cui è poi molto difficile porre rimedio. E a volte sfociare in situazioni che rischiano di deragliare.
In Italia fra gli esperti più noti che hanno indagato in profondità la materia c’è Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, insignito nel 2004 della medaglia d’argento al merito in sanità pubblica dal ministero della Salute. In un suo libro del 2021 scritto insieme alla moglie Barbara Tamborini, psicopedagogista e scrittrice, che già dal titolo non ammette equivoci (Vietato ai minori di 14 anni), elenca e argomenta ampiamente almeno dieci buoni motivi per ritardare il più possibile il possesso di uno smartphone: non è adatto ai bisogni dei ragazzi prima di quell’età; riduce la probabilità di successo scolastico; interferisce con lo sviluppo della mente in età evolutiva; impatta sullo stato di salute organica; riduce le competenze empatiche; influisce sulle reazioni emotive; crea ansia e dipendenza; genera diseducazione sessuale; interferisce con il bisogno di sonno; non aumenta il senso di protezione e sicurezza. Il libro presenta anche una lista di dieci film “per parlare di iperconnessione” (da The social dilemma a Genitori vs influencer, da Disconnect a Snowden) e in particolare nell’ultimo capitolo “Dalla teoria alla pratica” è ricco di consigli pratici. Lancia, ad esempio, la proposta del Contratto per l’utilizzo del primo smartphone di proprietà: da sottoscrivere fra genitori e figli, è suggerito come modalità formale ma simpatica di fissare regole condivise, con le relative sanzioni.
Ancora più netto, anche qui fin dal titolo, è il messaggio da tempo lanciato da Manfred Spitzer, neuropsichiatra, direttore del Centro per le Neuroscienze e l’Apprendimento dell’Università di Ulm: nel libro Emergenza smartphone (del 2018), offrendo una messe di dati (fra i quali il boom delle pubblicazioni scientifiche che indagano la correlazione tra smartphone e depressione), lo studioso – che si dichiara a favore del divieto di smartphone a scuola, anche perché gli studi dimostrano che ciò migliora le prestazioni degli studenti, un dato emerso con evidenza anche da un recente vasto studio su studenti delle scuole medie norvegesi – spiega perché la diffusione globale degli smartphone rappresenti un pericolo così grande che la si può chiamare a ragion veduta un’epidemia. Ansia in varie forme (FOMO-Fear of Missing Out, paura di essere esclusi da esperienze o eventi, o Nomofobia, “no mobile phone” fobia, paura della disconnessione dalla rete), obesità, insonnia, disturbi dell’attenzione, dipendenza, sono solo alcuni dei molteplici rischi ed effetti collaterali degli smartphone. Del resto, già nel 2015 in Germania sono stati i giovani a scegliere come neologismo dell’anno il termine “smombie”, cioè zombie da smartphone (si trova anche in Treccani).
Non deve stupire, allora, che negli ultimi anni si sia assistito a un fiorire di iniziative su questo fronte. Aspettando lo smartphone, ad esempio, è un progetto di educazione e sensibilizzazione per lo sviluppo di una maggiore consapevolezza digitale rivolto a genitori e docenti della scuola primaria e secondaria di primo grado: propone un “patto dei genitori” per l’educazione digitale (prevede la consegna dello smartphone non prima della fine della seconda media) e promuove l’idea che per affrontare una sfida così complessa serva il coinvolgimento di tutta la comunità. Patente di smartphone è un percorso educativo rivolto ai giovani sulla consapevolezza dei rischi e delle opportunità del mondo digitale: nato nel 2017 e sperimentato nelle scuole medie del Verbano Cusio Ossola, si è diffuso in oltre 150 istituti scolastici di mezza Italia, con quasi 10mila patenti consegnate. C’è invece chi per contrastare lo strapotere telefoni smart ha puntato su quelli dumb (stupidi) o più precisamente boring (noiosi): The Boring phone si chiama appunto il cellulare, con funzioni di base, prodotto da HMD per Heineken e Bodega (ma non è in vendita) che invita a riassaporare le gioie della disconnessione, di una vita non per forza sempre connessa. In questo senso ha dato risultati positivi l’esperimento di un liceo del Massachusetts che ha distribuito “telefoni stupidi” ai suoi studenti. Negli Stati Uniti si sono formati addirittura dei Luddite Club dove i membri rinunciano a smartphone e social media per recuperare la bellezza della vita reale non mediata da internet. Sempre negli Usa i giovanissimi hanno fatto nascere movimenti come Log Off, che sensibilizzano sull’impatto di social media e piattaforme online in particolare sulla salute mentale.
Di fronte a tutto ciò, chi vuole può ovviamente continuare a minimizzare o, meglio, a chiudere gli occhi e a seguire l’onda del pensiero dominante: “È il digitale, bellezza!”, e bisogna adeguarsi. Per tutti gli altri, genitori, insegnanti, educatori, si tratta di capire se si ha la voglia di dire sullo smartphone uno di quei famosi no che aiutano a crescere, o quanto meno di porre la questione ai propri figli. Consci che, come sempre, per essere credibili quando si vieta qualcosa bisogna dare l’esempio per primi. In questo caso vuol dire limitare prima di tutto il proprio uso dello smartphone: ne siamo capaci?