Esiste l’empatia digitale?
Per parlare di empatia nell’era digitale ti racconto una cosa che mi è successa la settimana scorsa, anzi in realtà mi è successa tante volte e credo valga lo stesso per te. E
La gestione di animali e vegetali che migrano dal territorio di origine è una minaccia per la biodiversità. Come difendersi e, quando si può, trasformare il problema in soluzione.
Mai forse come in questo periodo si parla di specie aliene. Al centro dei temi dell’estate 2023 c’è stato il granchio blu. Il fenomeno (e tutti i problemi correlati) non è però di certo nuovo. Zanzare, ratti, termiti ma anche piante come giacinto d’acqua e la lantana, sono solo alcune delle migliaia di varietà animali e vegetali che hanno finito per migrare a causa dell’uomo. La gestione delle specie aliene è da anni un campo di studio e di azione importante nella conservazione della biodiversità. Gli sforzi sono fatti per cercare di prevenire l’introduzione di specie alloctone dannose, monitorare e controllare le popolazioni di quelle invasive e (provare a) ripristinare gli ecosistemi danneggiati dal dilagare di queste specie. Ma la lotta sembra impari.
In biologia, il concetto di “specie aliene” si riferisce alle specie che sono state introdotte in un ecosistema o in una regione geografica diversa dalla loro distribuzione nativa. Queste possono essere introdotte intenzionalmente o accidentalmente dall’attività umana. Ad esempio, alcune possono essere sopraggiunte per scopi agricoli, ornamentali o per il controllo di diverse specie considerate dannose. Altre possono essere trasportate involontariamente attraverso il commercio internazionale, il trasporto marittimo o altre vie di movimento delle merci e delle persone.
In natura non vale il proverbio «più siamo, meglio stiamo». Gli equilibri ecologici sono infatti molto delicati. Le specie aliene possono avere un impatto significativo sugli ecosistemi e sulle varietà indigene. Il perché è presto spiegato con una serie di esempi. Possono competere con le native per risorse come cibo, spazio e riproduzione, ma non solo. In alcuni casi, le alloctone possono diventare invasive e causare danni ecologici, economici e sanitari. Possono predare quelle native, trasmettere malattie (verso le quali le tipologie autoctone potrebbero non avere difese), alterare gli habitat e modificare i processi ecologici naturali. Tutto ciò si traduce ovviamente anche in costi che l’umanità deve fronteggiare.
A dare un quadro a livello mondiale sulle specie aliene e in particolar modo di quelle invasive è il Rapporto IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) – la massima autorità scientifica in materia di natura e di contributi materiali e immateriali che la natura offre alle persone – frutto di oltre quattro anni di lavoro di un centinaio di scienziati. Secondo quanto emerso dal paper, sono più di 37.000 le specie introdotte dalle attività umane in tutte le regioni e i biomi della Terra.
Tra i dati preoccupanti, oltre ai numeri assoluti, abbiamo il ritmo di introduzione, affermazione e diffusione delle specie aliene che oggi è arrivato a cifre “record” ovvero circa 200 specie all’anno. L’altro dato preoccupante riguarda il fatto che quasi un decimo del totale, ovvero 3.500 specie, siano classificate come aliene invasive. Secondo i dati ISPRA, le specie aliene identificate in Italia sono 3500 di cui 3.363 attualmente presenti. Se ultimamente si parla tanto di granchio blu, bisogna ricordare che sono tanti i casi noti come la zanzara tigre proveniente dall’Asia, o la testuggine palustre americana, che in natura crea problemi a una specie nativa, la testuggine palustre europea.
Sappiamo da quanto riportato dall’IPBES in un precedente rapporto, che «le specie aliene invasive sono uno dei cinque maggiori fattori diretti di perdita di biodiversità, insieme a distruzione e degradazione di habitat, inquinamento, prelievo di risorse biologiche e cambiamenti climatico», come si può leggere sul portale del MASE. A causa del loro aumento finiscono per divenire più simili le comunità biologiche e ciò può indebolire la resilienza degli ecosistemi.
Monetizzando tutto ciò ogni anno tali “alieni” costano a livello globale almeno 423 miliardi di dollari. Secondo gli autori del report, il costo delle invasioni biologiche è aumentato addirittura del 400% per decennio dal 1970 e, secondo le previsioni, tale trend non smetterà. Indebolendo la
biodiversità.
Cosa fare? Diverse sono le misure che è possibile mettere in campo sia per combattere e limitarne la diffusione sia per contrastare l’impatto delle specie ad oggi introdotte. Secondo quanto emerge dai dati IPBES, a supporto di prevenzione e controllo vi sono innanzitutto la consapevolezza, l’impegno e lo sviluppo delle capacità dei cittadini e dei portatori di interesse. In quest’ottica, risulta fondamentale promuovere campagne di informazione e sensibilizzazione rivolte a tutti, per far comprendere l’entità del problema.
Proprio dal re incontrastato della cronaca estiva, viene poi un esempio di come a volte si possano affrontare i problemi legati agli “alieni”. Un detto dice «se hai limoni, fai limonate». Questo probabilmente devono aver pensato in Tunisia ove – come ha recentemente raccontato il WWF – si è riusciti a trasformare il granchio blu da una piaga a una storia di successo. Nel paese del nord Africa una tradizione per la cattura e la commercializzazione del granchio blu non era mai esistita. La proliferazione delle 2 specie infestanti (quella atlantica e quella arrivata tramite il canale di Suez) è iniziata quasi 10 anni fa nel 2014 e il primo impulso logicamente fu quello di provare a estirpare (fallendo) l’infestante invasore. Da allora ad oggi molto è cambiato tant’è che parlando del particolare crostaceo si usa utilizzare l’espressione “Dall’orrore all’oro”. Oggi quella del granchio blu è infatti un’economia solida e una filiera completa che include e dà lavoro a pescatori, donne, trasporto e logistica, aziende di trasformazione e commercianti. L’80% dei pescatori usa le nasse (nel 2014 l’intera flotta pescava con le reti), quindi un sistema di pesca selettiva e non distruttiva.
Pensate che oggi tale “alieno” rappresenta il 25% delle esportazioni di pesce del paese: nel 2021 in Tunisia l’export di granchio blu ha raggiunto le 7.600 tonnellate per un valore di 24 milioni di dollari, una cifra raddoppiata rispetto al 2020. Il cliente principale? Il mercato asiatico a cui si sono aggiunti Italia, Spagna, Stati Uniti e i paesi del Golfo Persico.
Un esempio che potrebbe oggi essere utile per l’Italia. A riguardo ha commentato Isabella Pratesi, direttore del Programma di Conservazione di WWF Italia: «Possiamo ancora imparare dall’esperienza dei nostri vicini, evitando di compiere errori, come l’utilizzo di sistemi non selettivi, soprattutto sotto-costa, che potrebbero essere fatali per i nostri mari già duramente impoveriti e danneggiati dalle attività umane e dal cambiamento climatico, e adottare una vera gestione adattativa, imparando a gestire nuove risorse ittiche come il granchio blu che possono fornire una fonte di guadagno alternativa a pescatori e agli operatori di tutta la filiera».
Se estirparlo diventa impossibile, trarne vantaggio diviene l’unica soluzione praticabile. Tant’è che, oltre che al nord Africa, anche in Paesi europei come Grecia e Spagna si sta affrontando il problema con il medesimo approccio per poter cercare di trovare e mantenere un equilibrio tra limitazione del propagarsi della specie e la necessità di un guadagno dei pescatori.