Sei consigli per difenderci dalla plastica
La plastica è presente nella nostra vita quotidiana da oltre settant’anni ed è così fondamentale che la diamo per scontata senza renderci conto della sua pervasività. Secondo
Di fronte alla crescente complessità del mondo, la soluzione è fare come l’aragosta e abbandonare la nostra corazza. Changes ne ha parlato con l’antropologo Stefano De Matteis.
«Non tutti sanno che l’aragosta nasce nuda e solo successivamente la natura le fornisce un abito su misura. Ma questo non cresce con lei: col tempo si trasforma in una gabbia e poi in una tortura. Così, quando la corazza diventa opprimente, l’aragosta la getta via e resta nuda: senza protezione, sola, in attesa di crearsene una nuova» scrive Stefano De Matteis, docente di Antropologia culturale all’Università degli Studi Roma Tre, ne Il dilemma dell’aragosta (Meltemi). Un saggio in cui, di fronte alla crescente complessità del mondo di oggi, l’autore ci propone di fare come il crostaceo e di abbandonare le nostre corazze, ossia le nostre certezze e identità monolitiche, che nel tempo si trasformano in gabbie ideologiche, per esporci invece al rischio, al dialogo e al confronto.
In questo modo De Matteis valorizza “la forza della vulnerabilità” che si esprime in un’elasticità che ci consente di restare aperti alle ragioni dell’altro evitando le polarizzazioni che dividono la nostra società. E il punto di partenza per coltivare una salutare mancanza di durezza, l’assenza metaforica di un carapace inadeguato alle contingenze, sta nel riconoscere che «le vite individuali sono prima di tutto un fatto collettivo». In altre parole, tutti pensiamo di avere un’esistenza unica e originale che ci distingue da chiunque altro, mentre siamo il frutto di una quantità di influenze, una costruzione culturale che dipende da dove nasciamo e viviamo. «Ognuno vive un proprio mondo fatto di memoria, dialetticità, vernacolarità di modi di essere, di ricordi di come siamo stati imboccati e vestiti e questo crea una realtà cui non possiamo sottrarci» chiarisce De Matteis al telefono. E questo retroterra è il nostro primo guscio di cui possiamo liberarci solo nel momento in cui prendiamo la consapevolezza di altri mondi accanto a noi e del fatto che tutti siamo plasmati da altrettante visioni del mondo. Questa presa di coscienza, che si accompagna al senso della relatività dei nostri punti di vista, un tempo era facilitata da riti di passaggio. «Decenni fa esistevano una quantità di rituali che permettevano una definizione di sé, un modo di esserci nel mondo. Oggi mancano riti di passaggio che ci inducano ad abbandonare una parte di noi, le credenze superate, ad abbracciare l’incertezza del futuro. Così le generazioni non sanno più come comunicare, in un presente in cui i limiti di un’età e dell’altra sono sfumati».
Ecco allora che viviamo isolati gli uni accanto agli altri, in solitudine perfino tra coetanei. E infatti, di fronte a casi di cronaca come quelli di universitari che si uccidono perché, invece di essere prossimi alla laurea, non hanno mai fatto gli esami viene da chiedersi: ma non avevano compagni che si informavano sui professori? Nessuno chiedeva loro gli appunti? Forse gli altri sono troppo occupati con la propria sofferenza per notare quella altrui. Peggio va agli adulti: Peggio va agli adulti: secondo De Matteis la loro sofferenza non viene più nemmeno percepita dalle sue stesse vittime. «Perciò oggi è necessario trovare nuovi modi di frequentare il territorio al di fuori di noi stessi e, come l’aragosta, spogliarsi e uscire dai ruoli fissi che abbiano assunto per riflettere su noi stessi e il mondo». Quella che il docente propone è una ripartenza, qualcosa di simile alla sensazione prodotta dall’innamoramento «quando si vorrebbe sospendere tutto e guardare la vita in un altro modo. È questo cambio di sguardo che può farci rendere conto delle nostre gabbie».
I ragazzi sono più inclini a farlo, perché in loro i ruoli sono meno inveterati. «Quando in estate faccio una summer school di antropologia con 16 studenti le discussioni non finiscono mai: se li si ascolta, se si dà loro la parola, gli studenti hanno la voglia di scambiarsi idee e di fare progetti. Occorre rilanciare momenti pubblici di confronto in cui le persone prendono la parola e si scambiano opinioni e idee. Dalle solitudini languenti si può uscire e passare da 1 a 3 a 5 e via dicendo». In questo modo la vulnerabilità diventa una ricchezza, non la condizione di chi non ha alternative, cioè dei fragili o dei malati. La vulnerabilità non è un ostacolo, ma fa riferimento soprattutto a una condizione potenziale. Ed è da qui che possiamo costruire un futuro possibile in cui riusciamo a misurarci con le contingenze e a costruire difese collettive all’arroccamento sulle proprie posizioni. Per riattivarla servono però mediatori culturali, mentori che siano in grado, con gli strumenti concettuali dell’antropologia, di indurre i cittadini, specie i più giovani, a fare con le parole e agire con esse, a condividere lo spazio dello scambio e della discussione e a escogitare soluzioni inedite e alternative. Il futuro si costruisce nel momento in cui, invece di aspettarlo, iniziamo a immaginarlo.