In questo mondo di schermi

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In questo mondo di schermi

In inglese si chiama screen time ed è una sorta di unità di misura del tempo passato sui device visivi di tipo elettronico. I bambini cominciano presto ad usarli, con quali conseguenze per la loro crescita? Changes ne ha parlato con Elena Bozzola.

La bambina scrolla il tablet con mani ancora incerte, seduta tra mamma e papà che con occhi sui rispettivi smartphone attendono quanto ordinato seduti al tavolino di un ristorante. Una scena tutt’altro che romantica, una quiete familiare mediata dai device elettronici che ormai però rappresenta una fotografia molto comune.

Così come è ormai consuetudine sorprenderci positivamente delle abilità dei bambini più piccoli che riescono anzitempo a sbloccare telefonini, accedere ad app e intrattenersi digitalmente quasi in autonomia. «Eppure, non c’è niente di cui rallegrarsi. Si tratta di gesti imitativi che i più piccoli compiono perché vedono noi adulti farli. Piuttosto spesso ignoriamo il carico negativo che queste abitudini portano con sé nella crescita dei ragazzi». A dirlo a Changes è Elena Bozzola, pediatra e segretario nazionale della Società Italiana di Pediatria.

Secondo i numeri diffusi dalla Carta di Padova, documento scientifico promosso dall’Università della città veneta, il 60% dei bambini ha il primo cellulare tra i 10 e gli 11 anni e inizia la vita in rete tra gli 11 e i 12 anni, mentre ben l’80% dei bambini al di sotto dei 2 anni utilizza device elettronici. Dati che a livello internazionale hanno attirato sempre di più l’attenzione della comunità scientifica, che da tempo studia le conseguenze cognitive, linguistiche, comportamentali e psicosociali dell’elevata esposizione agli schermi dei bambini. Quello che in inglese si chiama Screen Time è infatti una sorta di unità di misura del tempo che si passa davanti a schermi visivi di tipo elettronico come per esempio TV, PC, smartphone, tablet e strumenti vari.

Un recente studio pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Pediatrics, una delle più autorevoli nel campo, ha infatti sottolineato come i bambini esposti ad uno screen time di circa due ora al giorno possono presentare all’età di nove anni peggioramenti nel campo dell’attenzione e dell’esecuzione di funzioni cognitive. Lo studio, dal titolo Associations Between Infant Screen Use, Electroencephalography Markers, and Cognitive Outcomes, non dimostra una correlazione diretta tra l’esposizione agli schermi nella prima infanzia e il danno nella crescita, ma intende l’eccessivo screen time come “variabile mediatrice” in grado potenzialmente di arrecare danni seri dal punto di vista cognitivo e funzionale nella crescita. Questo perché le funzioni apprese dal bambino tra 0 e 3 anni sono fortemente influenzate dall’ambiente in cui esse si formano. E se questo contesto è dominato dall’uso degli schermi e dei suoi contenuti, l’apprendimento ne risentirà a causa di un linguaggio dei media digitali spesso pensato per persone con meccanismi cognitivi più complessi (come gli adulti).

«Ormai diversi studi hanno dimostrato che trascorrere molto tempo sugli schermi conduce a scarso rendimento scolastico, spesso causato da deficit di attenzione e concentrazione o dal fatto che i ragazzi sovra-stimolati dallo strapotere di immagini e suoni non riescano ad apprendere in diverso modo. Conseguenze negative poi si registrano per quel che riguarda la sfera sociale, la mancanza di empatia o la presenza di frequenti interferenze nel sonno». Sempre sulla rivista JAMA, inoltre, uno studio del 2017 ha sottolineato la correlazione tra eccessivo screen time e aumento del rischio di obesità a causa di comportamenti alimentari errati (il mangiare compulsivo dinnanzi agli schermi) e dell’assenza di attività motoria.

Un lungo prontuario di effetti negativi, insomma, che ovviamente non deve portare a nessuna demonizzazione, visto che i media digitali, come ha testimoniato anche il periodo della pandemia, rappresentano ormai non solo un nuovo linguaggio, ma una nuova chiave di rielaborare e decodificare la realtà. «Solo che occorre una seria assunzione di responsabilità da parte delle famiglie. Come Società Italiana di Pediatria, nel 2018 abbiamo pubblicato un documento in cui consigliamo di non esporre per niente agli schermi i bambini fino a 2 anni, concedere al massimo 1 ora di screen time per chi ha dai 2 ai 5 anni e solo 2 ore chi ha tra i 2 e gli 8 anni».

Ovviamente, come tutte le questioni che attengono alla sfera educativa, la teoria è semplice, mentre la pratica prevede lati di complessità non indifferenti. L’American Academy of Pediatrics ha per esempio promosso l’adozione presso le famiglie di un Family Media Plan, ovvero un set di regole comuni alla famiglia e personalizzate per ciascun membro in grado di limitare l’uso dei media digitali al necessario, per sfruttarne le caratteristiche positive e i benefici.

In generale però il ruolo delle famiglie, come suggerisce Bozzola è indispensabile. «È importante che il rapporto bambino-schermo sia mediato dal genitore (o dall’educatore) che deve intervenire e guidare l’interazione mediatica. È importante che i genitori guidino il bambino, intervengano nel caso di uso improprio, selezionino i contenuti, stimolino il ragionamento ponendo domande sul contenuto fruito».

Non tutte le attività svolte sugli schermi sono certamente uguali. I videogiochi sono molto differenti tra loro, si pensi a quelli usati proficuamente per scopi didattici e guardare un cartone animato non è la stessa cosa che navigare compulsivamente su un social network. «Secondo i nostri studi solo una minima parte delle applicazioni presenti su Apple Store o Google Play possono essere però definite educative», osserva Bozzola. «Secondo alcune nostre ricerche, appena il 4% delle applicazioni soddisfano i quattro criteri che qualificano i contenuti mediatici educativi, ovvero la capacità di sviluppare l’apprendimento attivo, di coinvolgere il bambino-utente nel processo attivo, di favorire le interazioni sociali e le modalità di apprendimento efficienti». Ecco perché aldilà di ogni anacronistico divieto, è importante l’approccio a un universo mediatico infinito. Guidare il bambino, nativo digitale e ormai immerso in un mondo fatto di schermi e contenuti mediatici, è una nuova responsabilità dei genitori, non meno importante delle altre.

Giornalista, pugliese e adottato da Roma. Nel campo della comunicazione ha praticamente fatto di tutto: dalle media relations al giornalismo. Brand Journalist e conduttore radiofonico, si occupa prevalentemente di economia, energia ed innovazione. Oltre la radio ama la storia e la politica estera.