Il lunedì è questione di prospettive

Ti è mai capitato di provare una certa malinconia la domenica? Ci sono persone a cui proprio questo giorno della settimana non piace, eppure dovrebbe essere quello in cui ci si ri
Siamo sottoposti a una ripetuta spettacolarizzazione del dolore, tanto che siamo diventati dei consumatori voraci di immagini che dovrebbero rendere un evento più reale, ma hanno subito un processo di de-realizzazione, trasformandosi in oggetti.
Quando soffriamo, l’abitudine diventa l’anestetico che ci consente di sopravvivere. Forse questa stessa dinamica potrebbe spiegare la nostra (appunto) anestetizzata reazione al dolore che quotidianamente ci viene mostrato dai media. Di fronte a un mondo tappezzato da immagini di orrore, potremmo cioè aver sviluppato, quasi per un processo evolutivo, una indifferenza finalizzata a difenderci da qualcosa che, altrimenti, ci frantumerebbe.
La verità potrebbe, però, essere diversa – scomoda e inaccettabile. È di gran lunga più plausibile, difatti, che, sottoposti a una ripetuta spettacolarizzazione del dolore, ne siamo diventati consumatori voraci. Quelle immagini che dovrebbero rendere un evento più reale, ripetutamente mostrate, hanno subito un processo di de-realizzazione, trasformandosi in oggetti, tra i tanti, da consumare. Anzi, nonostante mostrino orrori – dalle guerre alle violenze, dalle violazioni alle ingiustizie –, quelle atroci istantanee paradossalmente tengono la morte a debita distanza da noi. Relegata in uno schermo vicino, ma lontano, la Nemica è subito rimossa come minaccia all’apparente serenità che deve prevalente nella vita di ogni giorno. Perché – ammettiamolo – questo mondo ci dice continuamente che la nostra esistenza deve essere a tutti i costi felice; o, perlomeno, sembrarlo.
Dunque, non importa quale sia l’orrore a cospetto del quale ci troviamo – sia esso immediato, di un’umanità che ha perso le caratteristiche individuali per assumere quelle collettive della morte; sia esso storico, di un tempo che ha fallito persino dopo essere stato infettato, senza alcuna distinzione, da una malattia globale. A torreggiare – tra indignazioni che sbucano violentemente ma scompaiono (troppo) velocemente – è l’intorpidimento della nostra empatia.
Certo, siamo (ancora) umani e, quindi, sofferenti per il dolore altrui; ma la nostra addolorata reazione sosta così a breve nella nostra mente e nella nostra memoria da non creare nessuno sconvolgimento dell’ordine delle cose. Da questo abnorme rotocalco di sofferenza, non sembra nascere – perlomeno non significativamente – nessun movimento della ragione. Nulla, insomma, che possa interrompere il meccanismo; nulla che possa creare una rottura – possibile solo quando tante coscienze, dopo essersi fermate, agiscono nella stessa direzione. Al contrario, a essersi sviluppato è il desiderio carnale di conoscere maggiori dettagli: quanto più l’argomento è scabroso, quanto più la mostruosità è scandalosa, tanto più vogliamo nutrircene bulimicamente. E – lo sappiamo tutti – su questo nostro singolare voyeurismo si fonda l’intera industria della pornografia del dolore.
Gli orrori, le morti e le sofferenze non diminuiranno; anzi, come preannunciano la crisi climatica e il terremoto geopolitico, verosimilmente aumenteranno. E di certo non si ridurranno le immagini che le testimoniano – giacché in un mondo iperdigitalizzato non può esserci alcuna ecologia visuale. Cosa accadrà, dunque? Ci disumanizzeremo sotto il peso di questo ininterrotto fotogramma di mostruosità che scorre davanti ai nostri occhi? Sì, è una tra le tante preoccupanti probabilità.
Forse però, nonostante ci paia di poter assistere «allo spettacolo di questa universale combustione» senza bruciare, standocene «come tanti tizzi lontani dal fuoco, tra la cenere fredda», il «freddo di questa cenere» prima o poi penetrerà nella nostra anima. Ma quella sarà una buona notizia: perché fino a quando avvertiremo il “freddo” saremo vivi.