Elogio della vulnerabilità (anche al lavoro)

Well being


Elogio della vulnerabilità (anche al lavoro)

La vulnerabilità condivisa crea ambienti di lavoro psicologicamente sicuri, dove le persone non hanno bisogno di nascondersi né temono le conseguenze di condividere idee e prospettive, ma anzi esprimono con più risolutezza la loro personalità.

Il termine «vulnerabile» deriva dal latino vulnus, ovvero «apertura prodotta da colpo o morso» o, più in particolare, «ferita», «offesa», «dolore». L’aspetto centrale che emerge dalle definizioni è collegato a una lacerazione traumatica provocata dall’esterno; un atto rapido e violento.

È questo che avvertiamo quando decidiamo, anche dopo molta resistenza, di mostrarci: offriamo all’altro la vista di un lembo di anima, augurandoci che le sue intenzioni non siano quelle di colpire esattamente in quel punto. Più ci spogliamo dell’armatura che ci ricopre, più sarà ampia la superficie scoperta, più alto sarà il rischio di una ferita.

Passiamo la nostra esistenza a coprirci con tante, innumerevoli maschere che rivestono ogni nostra fragilità; se ci attaccano lì, il colpo – scontrandosi su una superficie dura – ritorna indietro, andando a vuoto o ferendo addirittura il mittente.

Altre volte, invece, decidiamo più o meno ingenuamente di privarci delle difese e mostrarci, appunto, vulnerabili: ovvero – è proprio questo che significa – esposti alle ferite, alle offese e al dolore. Ma perché farlo? Perché decidere di svelarci, con il terribile rischio di essere colpiti? Perché esporre senza protezioni le nostre emozioni?

Sincerità al primo posto

Innanzitutto, il primo motivo, quello più immediato, ma non il più banale: la vulnerabilità implica la sincerità, la trasparenza, la nudità. Rappresenta, cioè, l’unico modo per mostrarsi davvero. Noi siamo le nostre storie, siamo i nostri dolori, siamo tutto ciò che si nasconde al di sotto della corazza sociale e privata che meticolosamente edifichiamo. Ora penserete che sì, è giusto mostrarsi vulnerabili, ma solo in alcune occasioni: con la propria famiglia, ad esempio; o nelle relazioni, che richiedono esattamente quella seppure pericolosa trasparenza.

E nel lavoro? A discapito della sua reputazione storicamente negativa, si può ormai affermare con certezza che essere vulnerabile nel contesto lavorativo non solo è accettato, ma rappresenta la condizione per l’esercizio della sincerità, della comunicazione e della creatività. Ovviamente questo atteggiamento presuppone l’esistenza di uno spazio dove sentirsi sicuri: dove, ad esempio, parlare di salute mentale e di dolore, non è proibito.

Ambienti psicologicamente sicuri

La vulnerabilità condivisa crea ambienti di lavoro psicologicamente sicuri, dove le persone non hanno bisogno di nascondersi né temono le conseguenze di condividere idee e prospettive, ma anzi esprimono con più risolutezza la loro personalità. Questo, di certo, non significa trasferire indiscriminatamente le nostre emozioni all’esterno, ma avere il coraggio di confessarsi, in una data situazione. Hai difficoltà a svolgere un compito? Sii sincero. Un problema personale si sta ripercuotendo sulla tua concentrazione? Comunica l’eventualità di essere meno performante. Vuoi esprimere una tua idea, per quanto controcorrente? Non temere di sostenerla. Hai commesso un errore? Ammettilo e chiedi scusa.

Umanizzandoci difronte agli altri, umanizziamo anche le nostre paure, che diventano più gestibili e meno spaventose. Seppure con discrezione, e attenti a non essere gli unici a farlo, spogliarsi dell’armatura per mostrarsi vulnerabili intesse, inoltre, forti legami di fiducia: “questo sono io, senza coperture. E questo è il luogo dove colpirmi, ma so che non lo farai”.

Fuori dalla retorica, è necessario sottolineare che talvolta le ferite vengono inferte davvero e sono anche devastanti; e lasciano cicatrici che dolgono anche dopo anni. Eppure, se ci pensate, le armature e le maschere portano con sé un rischio molto più alto: le prime, non danno la possibilità di muoversi facilmente, causando un impedimento alla nostra libertà di azione; le seconde, le peggiori, non ci consentono di guardare e di essere guardati; di parlare e di essere ascoltati; di vivere e di essere vissuti.

Tenere troppo a lungo queste due coperture attaccate alla propria personalità conduce ad una condizione irrevocabile: diventiamo quelle armature, quelle maschere. Il dolore di portare un peso che abbiamo inflitto a noi stessi è senz’altro maggiore di qualsiasi vulnus proveniente dall’esterno.

Economista, consulente strategico e corporate trainer. Si è formato all’Università Bocconi di Milano e all’INSEAD di Fontainebleau, e ha girato il mondo per lavoro e per passione: Head of Business Development Unit di Finmeccanica in Russia, Senior Manager di McKinsey a Londra e Principal di AlphaBeta a Singapore, dove ha gestito progetti con aziende del calibro di Google, Uber e Microsoft. In precedenza, ha lavorato anche presso Goldman Sachs e le Nazioni Unite a New York. Tornato a Bari, ha fondato la Disal Consulting e si occupa di ricerca, consulenza, comunicazione e formazione per grandi aziende italiane (Ferrari e UniCredit), colossi digitali (Netflix e Amazon), istituzioni multilaterali (World Economic Forum) e governi nazionali (Francia, Cina e Germania). Insegna alla IE Business School di Madrid e alla Nanyang di Singapore, e dirige il Master in Digital Entrepreneurship presso H-Farm, dove cerca di trasmettere l’importanza dello storytelling per la riuscita di un progetto imprenditoriale. Dopo il successo del suo primo libro Flow Generation - manuale di sopravvivenza per vite imprevedibili, ha pubblicato con Hoepli Phygital - il nuovo marketing tra fisico e digitale.