Auto a prova di cyber criminali
Anche le auto sono sempre più connesse e quindi esposte ad attacchi informatici. In un articolo di Changes, abbiamo raccontato come ci fosse grande preoccupazione tra le autorità
La pandemia ci ha trascinato su terreni digitali con ancora maggior intensità e sta accrescendo il fenomeno. È un pericolo che striscia e, allo stesso tempo, è vero il contrario.
Gioventù bruciata ? È facile rimanere avviluppato nel paragone con gli altri. Se sei giovane è facilissimo, ma nessun adulto è immune al confronto. Osserviamo una persona, che in qualche misura ci incuriosisce o ci colpisce, e l’istinto inizia a produrre un senso di identificazione, fantasticando su chi essa sia nel mondo rispetto a noi, e viceversa. Il lato oscuro di questi pensieri però è dietro l’angolo, portando a ruminare pensieri ansiogeni: Cosa avremmo potuto essere, fare, diventare che queste persone sembrano già essere, fare? Perché non sono ancora stato capace di fare, di essere ciò che dicono di essere e fare gli altri? E oggi abbiamo i social media, che ampliano a dismisura il panorama delle persone con cui paragonarci e che possono influenzarci. No, non sto parlando degli influencer, ma di chiunque. Non è difficile immaginare le conseguenze . Prima però, permettetemi un’incursione su Jean-Paul Sartre, che aveva capito tutto ben prima di Facebook e Instagram.
Tra le opere più conosciute del filosofo francese, troviamo il dramma teatrale del 1944 A porte chiuse, dove Sartre mette in scena l’impatto delle relazioni con gli altri, mettendone in luce aspetti terribili. In questo dramma “l’Altro” diventa la cifra della nostra esistenza: io sono come gli altri mi vedono.
Tali persone si rivelano dei diavoli, e il loro forcone è lo sguardo. Con esso ci possono giudicare, farci sentire nudi: “Pietrificante, alienante, l’Altro mi getta addosso il suo sguardo di Medusa”. Da qui, la celebre frase: L’enfer, c’est les autres. L’inferno sono gli altri. Un desiderio umano spietatamente diffuso è di essere riconosciuti e apprezzati da chi ci osserva. E ci danniamo l’anima perché quegli sguardi inizialmente terrificanti diventino bussole di senso per i nostri giorni.
I social media sono amplificatori di persone, e sotto questo punto di vista, possono diventare amplificatori di inferni. Sempre pronti all’uso, sempre pronti a divampare dalla nostra tasca. Fino ai primi anni 2000 non c’erano così tanti amici, conoscenti e perfetti sconosciuti che ti apparivano sotto il naso annunciando successi, obiettivi raggiunti, facendo mostra di grandi ragionamenti, cambi di vita e premi conseguiti, a ricordarti che non avevi ancora conseguito niente di eccezionale, o perlomeno degno di interesse.
Quando tutto accade in modo troppo manifesto intorno a noi, diventa un’impresa capire cosa vogliamo fare, chi vogliamo essere e chi potremmo diventare. Perché sembra tutto un po’ sballato verso l’alto, una competizione quotidiana con legioni di altri, che ci motivano sorridenti a imitarli.
Lo scorgo ogni giorno parlando e scrivendo con persone di ogni età. Soprattutto, ragazzi alle prese con scelte sul proprio percorso scolastico e universitario. Che tante volte, sopraffatti, decidono di ridurre il rischio muovendosi sui sentieri più sicuri, tentando di pianificare ogni passo, centimetro su centimetro. L’ho visto anche al lavoro: manager e consulenti che tentano di prendere le misure non solo per i figli, ma anche per sé stessi. Tutte queste aperture sul mondo, alla lunga possono inibire il confronto con esso. La pandemia, che ci ha trascinato su terreni digitali con ancora maggior intensità, sta accrescendo il fenomeno. È un pericolo che striscia, che cresce. E allo stesso tempo, è vero il contrario.
Questi luoghi stanno dimostrando, per dirla alla Friedrich Holderlin, che: “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva.” Gli altri sono anche salvezza, e come ho imparato sulla mia pelle nel primo lockdown, i social media possono trasformarsi in amplificatori di salvezza. Ad aprile 2020 mi sono domandato come mettere le mani in pasta sui miei canali social personali, a partire da Instagram e LinkedIn.
Il motivo? Parte del mio lavoro consiste in formazione e consulenza aziendale per questi stessi canali. Come gestire una campagna aziendale, come interagire online, come declinare creatività e calendari editoriali. Dopo anni a presentare casi di studio, volevo vedere se fossi ancora in grado di farlo per il sottoscritto.
A dirla tutta, montava in me una sindrome dell’impostore. Una vocina sarcastica mi punzecchiava: «Sei direttore scientifico del master Digital Specialist per la Business School 24Ore, e sui tuoi canali cosa hai mai davvero raggiunto? Cosa hai rischiato? Cosa sei capace di fare in concreto oltre a pontificare su cosa dovrebbero fare gli altri? Hai creato una tua community di persone interessate?».
«Cara vocina – rispondevo – non faccio il creatore di contenuti, men che meno l’influencer. Quello è un lavoro a sé. E poi, chi ne avrebbe il tempo?». «Un bellissimo grappolo di scuse. La verità è che non ne saresti capace – insisteva la vocina – sei il classico formatore che dice agli altri come fare le cose perché lui non è capace di farle». A luglio misi a fuoco un percorso, e partii con l’obiettivo di creare una comunità di persone interessate alle competenze digitali e alla cultura umanistica in rete.
È stata la decisione migliore che ho preso negli ultimi anni. Cosa è accaduto, cosa ho imparato?
Non intendo suggerire a chiunque di lanciarsi sui social come creatori di contenuto. Il punto è un altro: comunque decidiate di usarli, in modo estremamente attivo o ricettivo, potete imparare tanto su voi stessi dall’alterità che pullula sui social. Dal punto di vista del confronto con l’alterità, l’inferno sono gli altri, e la salvezza sono gli altri. E in base all’atteggiamento con cui li usiamo, i social media possono rivelarsi amplificatore di inferni, o amplificatori di salvezza.