Sessualità: per i giovani meglio libera e fluida
Negli ultimi 10-15 anni, sottotraccia e senza troppi clamori, si è sviluppata una rivoluzione che ha cambiato il mondo delle relazioni romantiche. I giovani descrivono una societ
Secondo il Global Media Monitoring Project servono 67 anni per arrivare alla parità di genere nell’informazione. L’impegno di Gruppo Unipol nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.
Meno presenti in politica ed economia, poco citate se non come parenti di un uomo, solo una volta su due definite da un titolo professionale, quasi assenti tra gli esperti di riferimento interpellati dai media nazionali: le italiane appaiono così dalla sesta edizione del Global Media Monitoring Project (GMMP) 2020, il più ampio studio internazionale sulla rappresentazione di donne e uomini nel mondo dell’informazione, condotto su 116 paesi oltre 30.000 notizie riportate da stampa, radio, televisione e organi di informazione online.
In realtà un piccolo miglioramento si intravede: «50 anni fa le donne erano il 7% delle protagoniste delle notizie e oggi sono il 26%» ammette Claudia Padovani, co-coordinatrice del team italiano del GMMP e docente presso il Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’Università di Padova. Che però poi aggiunge: «Tuttavia, di questo passo per arrivare alla parità nella rappresentazione mediatica occorreranno altri 67 anni». Uno dei risultati più clamorosi del citato report, realizzato monitorando lo stato dell’informazione in una giornata campione, fissata nel 20 marzo 2020, ovvero in piena pandemia, è la percentuale di figure femminili presentate come esperte su temi scientifici o medici: l’11%, ben al di sotto della già scarsa media del 26%. Il che da un lato attesta una inadeguata restituzione del contesto sanitario, dove le donne sono spesso più della metà degli addetti; dall’altro implicitamente perpetua un pregiudizio implicito. Quello che attribuisce più credibilità agli specialisti maschi rispetto alle colleghe.
Anche in altri ambiti, come la politica, dove le donne sono il 22% soggetti citati, esse compaiono in genere come “portavoce” di partiti o di altre realtà, assai di rado come leader degli stessi. E così, mentre la realtà odierna vede una donna alla Presidenza del Consiglio, i mezzi di comunicazione continuano a riproporre l’immagine di una società d’altri tempi che discrimina le donne e le ghettizza a ruoli marginali e comunque ancillari rispetto agli uomini. I motivi di questa “distorsione percettiva” sono vari: si va dalla cultura organizzativa dei media e dalla conseguente necessità di operare con velocità (il che induce a intervistare sempre gli stessi esperti, purché veloci da contattare e “riconoscibili”, invece di cercare omologhe altrettanto preparate), alla mancanza di formazione dei giornalisti sulla parità di genere, fino all’interiorizzazione degli stereotipi da parte delle stesse donne che fanno informazione, che non si accorgono di come rafforzino i pregiudizi quando parlano, per esempio, di Sanna Marin come primo ministro (al maschile) finlandese o citano una donna come “signora” invece che come “avvocatessa”. Peraltro, «se alla sua nomina si è discusso se appellare Giorgia Meloni come presidente o presidentessa del Consiglio, vuol dire che una certa sensibilità sul tema è diffusa», constata speranzosa Padovani.
Occorre tuttavia migliorare ulteriormente la rappresentazione mediatica delle donne non solo per ragioni di corrispondenza ai fatti, ma anche perché, come riassume la convenzione del Consiglio d’Europa del 2011 «la parità di genere è de iure e de facto un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne». Giusto 5 anni fa, il 25 novembre 2017, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne, veniva elaborato dalle commissioni Pari Opportunità di Fnsi (Federazione Nazionale Stampa italiana) e Usigrai (il sindacato dei giornalisti Rai), con l’associazione GiULia giornaliste, il cosiddetto Manifesto di Venezia, una serie di raccomandazioni su come raccontare il dramma della violenza sulle donne. Tra di esse c’erano l’invito a evitare termini fuorvianti come “raptus”, “follia”, “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento, e a rifiutare di suggerire eventuali attenuanti all’omicida, motivando la sua violenza con una “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
Eppure, tuttora i femminicidi vengono descritti come esiti di una dinamica malata, ma esclusivamente di coppia, anziché come un problema culturale e sociale, dettato da un’idea errata della mascolinità e da una più generale visione della donna come oggetto di possesso invece che come soggetto. Basta vedere come, tra le notizie del citato 20 marzo 2020, sia stato raccontato l’omicidio a Lecce di due fidanzati da parte di uno studente, Antonio De Marco. Ecco, la narrazione standard, spiega il report, rievocava alcune caratteristiche del ragazzo ucciso, mentre nella maggior parte dei casi presentava la ragazza solo come sua fidanzata, come un’appendice femminile in una storiaccia di cronaca. «Abbiamo trovato solo un articolo, tra tutte le notizie sul caso, che contraddiceva questa narrazione incentrata sul maschio ucciso» riassume Padovani.
Cosa possono fare allora, giornalisti e lettori per promuovere una parità di rappresentazione tra i generi? «Gli operatori dell’informazione possono formarsi per migliorare il linguaggio usato per comunicare; ricercare esperti da consultare attingendo a elenchi al femminile come 100 esperte, cercare di evitare i luoghi comuni sui femminicidi» risponde la docente. I lettori invece possono segnalare narrazioni discriminatorie tramite una app (purtroppo in inglese), in modo da fare pressione sugli organi di stampa. Se le donne sono il 51,7% dei cittadini, ma solo il 26% dei protagonisti dei media, è ora che facciano valere questi numeri, anziché rimanere ancora una maggioranza silenziosa e ingiustamente sottorappresentata.
Fare cultura sul tema e sensibilizzare i media è una strada per combattere la violenza. Gruppo Unipol ha abbracciato questa filosofia e nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne celebrata il 25 novembre 2022, CUBO Unipol in collaborazione con Fondazione Libellula e la Commissione Pari Opportunità del comparto assicurativo del Gruppo Unipol, presenta Non ballo da sola, la rassegna di iniziative ed eventi volta a sensibilizzare il pubblico sul tema della violenza. Si tratta della quarta edizione di questa rassegna che per la prima volta si svolge con una formula itinerante a Bologna, Milano e Torino.
Il programma prevede sei eventi che sono delle importanti occasioni per ragionare su temi potenti e inclusivi: storie famigliari per sensibilizzare e prevenire, storie di stereotipi e di contraddizioni, storie di donne che con il loro coraggio e il loro sapere hanno cambiato il mondo, storie di emancipazione culturale finalizzate al superamento degli stereotipi di genere.
Tra le iniziative più simboliche, l’Installazione panchina rossa presso la Galleria San Federico a Torino, la quarta che il Gruppo Unipol colloca in Italia dopo quelle installate nel 2021 a Milano presso THE DAP – Dei Missaglia Art Park, nel 2020 nella piazza della Torre Unipol a Bologna e nel 2019 nei giardini di Porta Europa a Bologna.