Siamo tutte Delia

Society 3.0


Siamo tutte Delia

Il grande successo di pubblico di C’è ancora domani riporta il tema della violenza sulle donne sul grande schermo. Perché questo film ha fatto centro e quali sono nella storia del cinema altri esempi? Changes ne ha parlato con Riccardo Caccia, docente di Storia del Cinema allo IULM.

C’è ancora domani, il primo film da regista di Paola Cortellesi, ha conquistato 1,8 milioni di spettatori ed è il campione di incassi italiano con oltre 13 milioni di euro in sole due settimane di programmazione e al quinto posto della Top Ten cinematografica 2023, unico film italiano. E dire che la pellicola è girata in bianco e nero e affronta tematiche pesanti, come la violenza sulle donne e le disparità di genere subite per decenni dalle italiane (alcune delle quali, come il pay gap, tuttora sussistono).

Come spiegare allora il successo del film? «Possiamo ipotizzare che vari fattori abbiano inciso», illustra Riccardo Caccia, autore di Storia e cultura del cinema (Pearson) e docente di Storia del Cinema allo IULM, dove ha organizzato la rassegna Riflessioni in tema di violenza sulle donne, insieme al Comitato Pari Opportunità dell’ateneo. «Da un lato Cortellesi – dice il professore – ha un pubblico di nicchia, che da lei si aspetta un’ironia intelligente, ma che può apprezzare anche il bianco e nero e l’ambientazione post neorealista. Dall’altro lato, l’attrice piace anche al pubblico medio che la conosce per film quali Come un gatto in tangenziale e che qui trova soddisfazione in alcuni caratteri popolari, come il suocero». Secondo Caccia, nonostante alcune ingenuità, la storia di Delia, protagonista dimessa e sottomessa, è in equilibrio tra il dramma e la commedia; senza battute grevi e senza scadere nel melò. «Quando la regia suggerisce la violenza subita dalla protagonista – continua – non la mostra, bensì la trasfigura in balletti che, senza cancellare la ferocia delle botte, fanno sposare allo spettatore il punto di vista femminile, la strategia di una moglie che deve nascondere le percosse e renderle qualcosa di accettabile. Il pubblico assiste a questo travestimento della verità dentro la sua stessa casa».

Così, viene da chiedersi anche se, con questo escamotage, Cortellesi non stia interrogando lo spettatore (e le spettatrici) chiedendo loro: sapresti riconoscere lo stesso meccanismo fuori dalle mura domestiche, di fronte a frasi quali «sono caduta» o «ho sbattuto contro una porta» ripetute da tante donne maltrattate? Sembrerebbe una chiamata in causa analoga all’invito finale a prendere in mano il proprio destino.

E se Cortellesi ha deciso di non mostrare la violenza fisica su una moglie infelice, altri registi sono riusciti a rappresentare diverse forme di sopraffazione nella coppia con altrettanta efficacia. Nella rassegna organizzata allo IULM, Caccia ha inserito, per esempio, Primo amore di Matteo Garrone, che ripercorre la spietata manipolazione subita da una donna che il partner vuole plasmare come il metallo (non a caso lui fa l’orafo) e che vuole rendere un oggetto estetico, neppure erotico, una sorta di gioiello nelle sue mani.

La scelta di Anne di Audrey Diwan, tratto da un libro di Annie Ernaux, ripercorre invece la vicenda di una studentessa che nel 1963 in Francia non riesce ad abortire. «La storia è raccontata mettendo la macchina da presa addosso alla protagonista per tutto il tempo, cosicché l’uso del mezzo è asservito a un racconto claustrofobico, in cui la ragazza non ha scampo e le donne non hanno scelta» commenta Caccia.

Un film molto discusso, che non è entrato però nel programma dello IULM, è invece Irreversible di Gaspar Noè, un lungometraggio che ha al centro uno stupro che dura sullo schermo ben nove minuti. «La scena, girata con una macchina da presa fissa, senza stacchi, è stata giudicata molto voyeuristica mentre, anche per la sua durata, rende l’idea di cosa può essere l’espansione del tempo durante una violenza» sottolinea Caccia. «Per di più, il film è montato al contrario, ovvero a partire dalla conclusione, per finire con l’inizio della serata della violenza, di modo che lo spettatore che ha visto lo stupro, vive le scene finali come una menzogna, un’immagine idilliaca che la realtà dei rapporti rende fasulla».

Sul tema della violenza invisibile, Caccia cita invece una pellicola che lo scorso anno la prestigiosa rivista inglese Sight and Sound ha messo in vetta alla classifica dei migliori film di tutti i tempi: Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles della regista belga Chantal Ackerman. «In questo caso, la peculiarità è che la donna non subisce, bensì commette un atto di violenza. Tuttavia, il film mostra come sia l’organizzazione sociale a costringere le donne a un ruolo impossibile da sostenere, che fatalmente può sfociare in un omicidio» argomenta Caccia.

Il film è molto impegnativo, innanzitutto per la sua durata: 3,5 ore. Inoltre, le riprese mostrano in tempo reale la routine costante di questa donna che occasionalmente si prostituisce. Lunghe sequenze mostrano, per esempio, l’intero procedimento, dall’inizio alla fine, con cui Jeanne prepara un piatto di cotolette, o il tempo di cottura delle patate. «Tutto è molto freddo, asettico, finché la ripetizione degli stessi gesti diventa sempre più nervosa e sfocia nell’omicidio senza una vera spiegazione. È la situazione stessa della donna che è una forma di violenza istituzionalizzata, l’impossibilità di uscire da uno schema di comportamento prefissato per le donne» aggiunge Caccia che suggerisce due pellicole in cui la protagonista passa da vittima ad attore dell’azione. La prima è Lezioni di piano di Jane Campion in cui una donna muta, dopo essere stata ricattata da un uomo prende l’iniziativa di diventarne l’amante e decide così del suo destino. «È un film in cui tutti i personaggi sono duplici: Ada, la protagonista, rovescia le aspettative nei suoi confronti da parte del patriarcato, mentre George, l’uomo che inizialmente la ricatta, si rivela diverso da ciò che è all’inizio, qualcuno che la ama e non la vuole con la forza».

Scandalosa l’ultima pellicola suggerita: Il portiere di notte di Liliana Cavani. «Nonostante le polemiche sull’assoggettamento fisico e sociale di una donna, che diventa l’amante del suo ex carceriere nazista, Cavani, che aveva realizzato uno dei primissimi documentari sull’orrore dei campi di sterminio e incontrato molti sopravvissuti, non esita a realizzare un film molto controverso», spiega Caccia. «Lo fa perché in quanto donna può raccontare il desiderio femminile e la sua potenza, capace di rendere una persona da oggetto di concupiscenza a soggetto che seduce, senza essere tacciata di maschilismo». Indubbiamente Cavani ha avuto un gran coraggio. E, a dispetto delle perplessità e delle critiche legittime, con questo film ha difeso la facoltà delle donne di decidere liberamente di sé e del proprio piacere, mettendo in scena esattamente il contrario della violenza subita a opera di qualcun altro.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​