Come prevenire la violenza di genere

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Come prevenire la violenza di genere

Perché la mancata costruzione di una solida identità maschile è la radice dell’escalation degli atti vilenti contro le donne. Changes ne ha parlato con Matteo Lancini, Presidente della Fondazione Minotauro.

Il tema classico della violenza di genere va integrato con i nuovi funzionamenti affettivi delle generazioni attuali. Non possiamo interpretarlo come se fosse lo stesso comportamento di 60 anni fa perché le motivazioni non sono le stesse. «La violenza non è solo un problema culturale, ma di cultura affettiva. Non sottovaluto l’impatto della pornografia o l’oggettivazione del corpo femminile, ma sarebbe meglio comprendere il senso della costruzione identitaria maschile e la sua complessità piuttosto che sostenere che la violenza di genere trovi in questi elementi la propria radice. Se il femminicidio di Giulia Cecchettin fosse stato davvero attribuibile solo al patriarcato, non ci avrebbe colpito tanto quanto ha fatto. La verità è che tutti abbiamo pensato che potevano essere i nostri figli, lei poteva essere nostra figlia e lui nostro figlio». Così lo psicologo Matteo Lancini, presidente della Fondazione Minotauro di Milano e autore di Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti (Raffaello Cortina), sgombra subito il campo dalla vulgata che spiega i femminicidi e la violenza tra ragazzi ricorrendo a semplificazioni della realtà. Changes gli ha chiesto cosa si può fare per prevenire la violenza di genere.

Nel suo saggio lei scrive che contro la violenza sulle donne serve una nuova cultura della prevenzione. Cosa intende?
Molti sostengono che la violenza giovanile, di cui quella di genere è una specifica, dipenda dal fatto che i nostri ragazzi hanno avuto troppo, che li abbiamo coperti di attenzioni e di comodità e che non sono più usi a tollerare frustrazioni. Così decidiamo di aumentare il controllo sui giovani perché “imparino” come ci si comporta. Ma a parte che il controllo non risolve nulla, il tipo di sofferenza incontrata nelle nuove generazioni, il loro malessere, non nasce dalle frustrazioni, bensì dal mancato riconoscimento dei loro bisogni. Tanto le istituzioni scolastiche quanto gli adulti non legittimano le emozioni negative dei ragazzi, sono troppo fragili per tollerare un figlio o uno studente depresso, o arrabbiato. I paletti sono una soluzione comoda per non ammettere la complessità odierna. Una situazione in cui, benché questi ragazzi siano più ascoltati di quanto lo fossimo noi, in realtà il patto di ascolto intergenerazionale viene messo a tacere quando essi fanno emergere parti di sé che ci mettono in discussione. Di qui deriva la necessità di ridefinire cosa significa educare: vuol dire transitare verso un sistema di valori in cui le emozioni si possono dire e accogliere anziché essere un ostacolo al fatto di andare al lavoro o in palestra. Vuol dire non soffocare le emozioni, bensì imparare gestirle. Questa è l’unica prevenzione possibile, ed è ben altro che una lezione scolastica.

Lei sostiene che i timori legati alla relazione con l’altro sesso siano cambiati; dal timore di essere vincolato dall’altro siamo passati al timore di non esistere nella mente dell’altro. Ovvero?
Un tempo un adolescente, che si era appena svincolato dal controllo della mamma, si sentiva richiedere dalla fidanzatina di dimostrarle che a lei ci teneva, trovava un nuovo vincolo nella relazione. Oggi non abbiamo il problema del processo separativo dall’altro, al punto che, nel mio libro, narro di coppie in cui i due partner si vogliono bene, eppure si lasciano. Ora il problema, piuttosto, è che senso ha stare insieme, non il fatto di lasciarsi. È vero che la dipendenza dello sguardo di ritorno dei coetanei c’è sempre stato per i ragazzi, ma oggi questo potere orientativo per loro è aumentato perché gli adulti non dedicano spazio mentale alle emozioni dei figli e quindi è l’altro, il partner, a dover fornire a un ragazzino ciò cui più ambisce e che più lo spaventa: lo sguardo di chi ti ama per quello che sei, il riconoscimento dei tuoi bisogni. Al contempo c’è il rischio che questo sguardo ti illuda, o si interrompa gettandoti in un vuoto identitario dopo che per la prima volta non ti sei sentito solo. Peccato che nella nostra società la dipendenza da un altro, che frena la tua autorealizzazione, non essere totalmente autonomi anziché essere ritenuto fisiologico, sia patologicizzato e vissuta come qualcosa di malato. Di conseguenza la costruzione della coppia come vincolo, come progetto è in crisi. I ragazzi non immaginano più legami durevoli. La coppia soccombe all’indipendenza e al progetto del singolo.

Lei prefigura un futuro che pare distopico, scrivendo “Non è lontano il momento in cui la vera prevenzione dalle relazioni tossiche sarà non avere più relazioni”. Davvero?
Oggi tu vuoi la coppia ma contemporaneamente devi rispondere alle esigenze che ti hanno inculcato i tuoi di realizzare te stesso. Fino a dove siamo disposti a dire che le due cose sono compatibili? Unire le due cose è un delirio dal primo fidanzamento a 60 anni: la coppia richiede una continua manutenzione, che è una mediazione tra bisogni tuoi e quelli dell’altro. Ora che viviamo un’emancipazione perfino dall’atto sessuale per diventare genitore qual è il senso di una relazione di coppia che è sentita come un vincolo? Già dall’epoca del divorzio è cambiato il senso della coppia: ora, in nome dell’autorealizzazione a due, non si può accettare il sacrificio o la perdita di sé.

Le relazioni, che sono il problema, sono anche la soluzione?
Guardi, finché un bambino spinge un compagno all’asilo e invece di gestire la conflittualità tra bambini si convocano i genitori, quella che chiamiamo educazione resterà un’anti-educazione perché soffocando le emozioni dei bambini e ragazzi non li educheremo mai agli affetti. Mi preoccupa che l’educazione all’affettività non parta da una realistica rappresentazione dei ragazzi, che è il solo modo di fare prevenzione. Sarò brutale per farmi capire, ma non è che, se zittisci un ragazzo che pensa al suicidio, lui non proverà a farsi del male. Anzi, prima ascolti le sue emozioni, per te sgradite, meglio è. Oggi invece leggiamo i comportamenti e l’educazione dei ragazzi in base alla nostra cultura, che banalmente non è la loro. E allora non andiamo da nessuna parte.

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Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​