La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Negli ultimi dieci o quindici anni siamo stati presi d’assalto da chef stellati, reality ambientati in ristoranti, “prove del cuoco” di vari ordine, grado e livello di perfidia, influencer gastronomici e così via. Per fortuna è arrivata The Bear.
Da tempo la televisione si è, letteralmente, chiusa in cucina. Siamo passati dall’ossessione per il mangiare a quella per il cucinare, in una scala narrativa che va dalla presentazione delle ricette della nonna alle prove di sopravvivenza al cospetto di spietati guru culinari (l’archetipo dei quali è Carlo Cracco). Il risultato è che il mondo della ristorazione, nella percezione degli spettatori, è oggi circonfuso di un’aura a metà tra glamour, misticismo simil-new age e disciplina da campo di addestramento dei marines.
Ci voleva qualcosa che ci riportasse in cucina, ma sul serio. Che mostrasse in modo realistico cosa accade davvero dietro quelle porte girevoli. Una storia che facesse percepire la fatica, lo “sporco”, l’unto, la nevrosi, la frenetica e sfiancante corsa contro il tempo e le difficoltà di ogni tipo che lavorare in quell’ambito comporta.
Per fortuna è arrivata The Bear. La serie su Disney+, ideata da Christopher Storer e prodotta da Hulu, è diventata grazie alle due stagioni on air dall’autunno del 2022 uno dei casi televisivi dell’anno, raccogliendo recensioni entusiastiche e un gradimento altissimo da parte del pubblico. Compreso quelle di chi degli chef, più o meno “master”, non ne poteva più. Un successo meritato, per tante e diverse ragioni.
La prima, banalmente, è la qualità della scrittura e della recitazione. Nei diciotto episodi della serie non c’è praticamente un secondo buttato via, nessun “spiegone” e nessun momento morto, con una narrazione che alterna il registro forsennato – avvertenza: se si supera l’ansia generata nelle prime due puntate, prima di abituarsi al ritmo e alle dinamiche tra i personaggi, è poi tutta discesa – a quello più intimista e commovente, ma guidata sempre da un’economia e da una precisione nei passaggi drammaturgici che ricordano davvero quelle indispensabili nella backline di un ristorante. Quanto agli attori e alle attrici, formano un cast straordinario per naturalezza e coralità. A partire ovviamente dal protagonista Jeremy Allen White, che molti conoscono per il ruolo nella altrettanto celebrata Shameless.
Con il suo aspetto da cherubino un po’ depresso e un po’ ispirato dal genio, White dà un volto indimenticabile a Carmen “Carmy” Berzatto, talentuoso cuoco di origine italo-americana che si ritrova dalle stelle (quelle Michelin) alle stalle, nella fattispecie la panineria in un quartiere malfamato di Chicago che il fratello, morto suicida, gli ha lasciato in eredità insieme ai debiti e a una squadra di lavoro più simile a un’armata Brancaleone che a un team di professionisti. A dargli una mano arriva Sydney, giovane sous chef fresca di studi alla CIA (che in questo caso sta per “Culinary Institute of America”) la quale cerca di immettere razionalità manageriale nel caos allucinato della paninoteca-misto-sala giochi, scontrandosi inizialmente con l’attitudine pressapochista, fatalista e incasinata di chi ci lavora. La tensione costante tra organizzazione e confusione totale, tra metodologie all’avanguardia e “abbiamo sempre fatto così” (mentalità incarnata dallo splendido e complesso personaggio di Richie, amico di famiglia e praticamente “cugino” acquisito dei Berzatto: un uomo tormentato da sensi di colpa, nevrosi ingestibili e complessi di inferiorità ma anche generoso e devoto a Carmy) è speculare a quella tra le generazioni differenti e i sessi, in un microcosmo apparentemente dominato da una mascolinità (più che da un maschilismo vero e proprio) che diventa tossica quasi involontariamente.
Ma The Bear non è solo una full immersion nel lato nascosto della ristorazione. In questa commedia con protagonisti perennemente sull’orlo della crisi di nervi c’è anche uno studio psicologico raffinatissimo sulle tipologie umane, sul lavoro di gruppo e sulle dinamiche famigliari. La storia dei Berzatto viene svelata poco a poco, fino al climax della incredibile puntata “natalizia” della seconda stagione – unico episodio dalla lunghezza paragonabile a quella di un film – nella quale fa la sua comparsa la madre di Carmy (una gigantesca Jamie Lee Curtis) e che renderà per sempre l’idea di “cenone” con i parenti qualcosa di davvero angosciante.
L’ingrediente che fa di The Bear un piatto che si distacca dal solito menu serial-televisivo è, in definitiva, la sua profonda umanità e il suo realismo. Ogni episodio sembra quasi girato in tempo reale, trasmettendo per osmosi allo spettatore tutta la frenesia che si vive in una cucina professionale, ma grazie alla naturalezza del cast – che fa sembrare improvvisate sequenze che molto probabilmente non lo sono – e al talento degli sceneggiatori agisce anche un secondo livello di immedesimazione. È quello che riguarda le paure, le insicurezze, le ambizioni frustrate, il bisogno di rimettere insieme i cocci della propria vita che a turno e insieme i personaggi mettono in scena. Uomini e donne fallibili, a tratti persino sgradevoli, logorroici a livelli iper-realistici (la quantità di “fuck” per ogni singola frase è talmente alta che neppure i sottotitoli in originale riescono a starvi dietro), eppure tenerissimi e “veri” nella loro quotidiana lotta per migliorarsi.
A tutto ciò si aggiunga una eccellente colonna sonora indie-rock e un setting urbano azzeccatissimo. Le canzoni che si sentono in sottofondo, così come la Chicago livida che vediamo dalle rotaie della metropolitana in superficie o nei vicoli di periferia, sono il sale e il pepe che guarniscono alla perfezione la ricetta.
Si potrebbero fare altre metafore culinarie, ma c’è qualcosa che The Bear proprio non è in alcun modo: una metafora. L’arte di cucinare non è raccontata come la via di accesso a significati più elevati, non è lo specchio del mondo. Anzi. Finalmente la cucina viene messa al centro della scena ma senza alcun tentativo di costruirvi una mitologia posticcia intorno. La cucina è fatica, è stress continuo, è bollette e fornitori da pagare e non sapere se ci riuscirai, è la rush hour di mezzogiorno che può farti uscire di senno. Ma è anche uno dei tanti ambiti in cui persone che lavorano insieme possono darsi una mano per diventare altro da sé, e superare i traumi che la vita dissemina sulla strada di chiunque.