Parità salariale e leadership femminile: i nuovi orizzonti del lavoro

Society 3.0


Parità salariale e leadership femminile: i nuovi orizzonti del lavoro

Il gender pay gap e la scarsa presenza femminile nei ruoli apicali sono ancora una realtà, nonostante segnali di cambiamento. Quali politiche e strategie stanno funzionando per ridurre il divario di genere nel lavoro? Changes ne ha parlato con Azzurra Rinaldi, Direttrice della School of Gender Economics all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza.

«Il 48% dei dipendenti al livello base nelle aziende americane sono donne, ma per ogni 100 uomini che ottengono la meritata opportunità di ottenere una promozione, solo 81 donne avranno la stessa opportunità». Quest’affermazione fa parte dei dati contenuti in The Broken Rung (Harvard Business Review Press), saggio scritto dalle senior partners della società McKinsey Kweilin Ellingrud, Lareina Yee e María del Mar Martínez in cui, inequivocabilmente, si dimostra come lo svantaggio professionale e salariale per le donne inizi dal primo gradino della loro carriera. Facciamo il punto con Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, dove insegna Economia politica, e co-fondatrice di Equonomics, società che mira a portare il tema dell’equità di genere all’interno di aziende e istituzioni.

Qual è lo stato delle cose in Italia?
Molto male. Secondo un report del World Economic Forum quanto a parità di opportunità economiche tra uomini e donne, che è uno degli indicatori usati per elaborare il Global gap index siamo al posto n. 111 su 140 Paesi esaminati. Quanto alla disparità salariale invece la differenza media è del 20%, ma si sale al 31,2% in attività finanziarie e assicurative, al 35,1 in ambito scientifico e tecnico fino al 39,9% nel settore immobiliare.

Per guardare allo stipendio iniziale, come hanno fatto le esperte di McKinsey secondo dati Ocse del settembre scorso una giovane laureata (i dati riguardano soggetti che hanno fino a 34 anni) guadagna il 58% di un uomo di pari età e competenze. Un divario che non solo non recupera mai più, ma che è addirittura più ampio del periodo pre-pandemico, dove lo stipendio di una lavoratrice era in media il 73% di quello di un collega.

Eppure, emerge una narrazione contraria. Come mai?

Vero, perché una bugia ripetuta molte volte viene percepita come una verità. E ripetersi che le cose stanno migliorando è autoassolutorio e consolante. Non ridurre questa disparità da parte delle aziende e dei decisori però è una scelta miope per loro e per il Paese. L’Italia è ultima in classifica tra i Paesi UE per tasso di occupazione di donne e giovani. Facciamo peggio di Polonia e Romania, per dire, perché siamo sotto la media di 14 punti. Se solo arrivassimo alla media, il nostro Pil segnerebbe un incremento del Pil del 7%, una percentuale che non vediamo almeno dal dopoguerra.

Che strategie hanno funzionato all’estero che potremmo imitare?
Faccio un esempio che sembra scollegato dalla retribuzione ma non lo è: il congedo di paternità obbligatorio, di pari durata al congedo di maternità. Lo hanno adottato sua la Svezia sia la Spagna per eliminare quello che è il vero discrimine non solo tra i due sessi ma nella carriera di una donna. La maternità segna prima e un dopo nella vita lavorativa da cui non si recupera mai più. Proprio per questo un congedo parificato per la prima volta introdurrebbe nelle assunzioni il criterio del merito. Ricordo che in genere le donne si laureano prima e con voti più alti, ma un datore di lavoro oggi tiene in conto la loro assenza per la maternità e in seguito. Prevederla anche per i maschi ridefinisce i criteri di selezione.

Cosa pensa della certificazione della parità di genere, introdotta dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e regolamentata da una legge del 2021?
Probabilmente si poteva fare un po’ meglio. Per esempio, si basa su criteri qualitativi più che su dati quantitativi, come turnover tra uomini e donne, che è un indicatore che non dice nulla sulle condizioni di lavoro. Alla domanda se vi siano azioni per garantire alle lavoratrici un posto di lavoro post maternità, poi, si può rispondere solo con un sì o no, senza entrare nel merito.Nondimeno, il processo è molto utile per mettere i dati sul piatto. A me è capitato di fare consulenza in aziende che si vantavano del numero di dipendenti donne senza avere idea di quante di esse occupassero posizioni apicali e no. I numeri hanno il pregio di mostrare il problema e di obbligare queste aziende a prevedere momenti formativi per le donne e modificare le loro politiche di assunzione.

Concedere il part time è un aiuto per le donne o finisce per obbligarle a ricoprire il ruolo di caregiver e a guadagnare di meno?
Occorre cautela nel giudicare gli strumenti. Sicuramente consentono una migliore gestione della vita, ma nessuno strumento è neutro in termini di genere in una società polarizzata. Il tempo guadagnato dalle donne per la riduzione oraria o grazie allo smart working viene impiegato per fare un secondo carico di lavoro, che è quello familiare, quello guadagnato dagli uomini serve ai loro hobby. In più il tempo dai 30 ai 45 anni, che per le donne sono gli anni in cui si fa il primo figlio e lo si cresce, sono quelli in cui passano i treni professionali. Dopo non ne arrivano più. E dunque la storia delle donne è una storia di povertà: siamo meno occupate, quando lo siamo guadagniamo di meno e quando andiamo in pensione ne riceviamo una più bassa del 40% in media dei maschi. La storia può cambiare solo se i criteri di valutazione del lavoro femminile vengono riferiti in base airisultati e non ai processi.Se io vengo giudicata per la disponibilità di fare una call alle 19 o di guardare la mail in vacanza, è ovvio che il mio carico di cura mi penalizza. Se invece si guarda al risultato del mio lavoro, che posso aver svolto di notte, o di prima mattina, invece alle modalità nelle quali l’ho svolto, le cose cambiano. Purtroppo, nelle aziende domina ancora una idea rigida di cosa debba fare l’impiegato perfetto. Che non a caso nell’immaginario collettivo è un uomo.

Gli ultimi esecutivi hanno prodotto misure utili per ridurre il divario e favorire la conciliazione tra lavoro e vita privata anche perché allarmate dalla bomba demografica?
Nell’ultima legge di bilancio c’è poco o nulla per le lavoratrici e per le donne che fanno impresa. C’è, al contrario, un supporto per le madri. Non discuto la scelta. Ricordo solo che, se una mamma è incentivata a non lavorare, non è indipendente, rischia la violenza economica o se la subisce non ha i mezzi per andarsene.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​