La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Upskilling e Reskilling diventano parole d'ordine nel campo della formazione su cui spinge il PNRR. Ma basteranno per cogliere le sfide delle transizioni in atto?
La chiamano new normality, epoca del lavoro digitale oppure semplicemente era post-covid. Qualsiasi sia la formula che designi il mondo dopo la pandemia, una cosa è certa: il lavoro sarà uno dei settori maggiormente investiti da quel visibile vento di innovazione destinato a stravolgere il modo stesso di intendere il capitale umano.
Per comprenderlo, basta sfogliare i vari Recovery Plan nazionali, quei piani consegnati dai vari Stati all’Europa per accedere ai copiosi fondi comunitari per la ripresa economica. Nel PNRR italiano al lavoro è dedicato ampio spazio, con un accento forte proprio sull’elemento- formazione. Nel testo di oltre duecento pagine, infatti, si legge come «l‘apprendimento di nuove competenze (reskilling) e il miglioramento di quelle esistenti per accedere a mansioni più avanzate (upskilling) sono fondamentali (…) per sostenere le transizioni verde e digitale e il potenziale di crescita dell’economia».
Accelerare verso la transizione ecologica, digitale o energetica significa puntare su nuove competenze, professionalità, su un nuovo modo di fare impresa e formazione. Il rischio da evitare è quello di lasciare qualcuno indietro. D’altronde anche l’Employment Outlook 2021 dell’Ocse sottolinea come il rilancio del mercato del lavoro dovrebbe ripartire dalla formazione e secondo uno studio pluricitato del World Economic Forum, entro il 2025, il 50% di tutti i lavoratori avrà bisogno di reskilling e il 40% delle competenze base degli attuali lavoratori cambierà.
«Una rivoluzione già sotto i nostri occhi che la pandemia ha accelerato e reso visibile», dice a Changes Laura Zanfrini, CEO di Zala Consulting, società di consulenza aziendale specializzata proprio sulla formazione.
Ma quali sono i trend che hanno investito negli ultimi anni il mondo del lavoro? «Innanzitutto c’è il tema tecnologico – sottolinea Laura Zanfrini – con il digitale che ha stravolto tutte le funzioni lavorative». Si tratta della pluri-citata digitalizzazione, di cui da anni si sbandierano gli effetti rivoluzionari. «C’è poi il trend della globalizzazione che cambia il modo di rapportarsi con il contesto esterno di azienda e personale, il trend generazionale che vede la forza lavoro diventare sempre più senior, rappresentando un’ulteriore sfida dal punto di vista della formazione. Poi ci sono altre tendenze che riguardano il passaggio del lavoratore da dipendente a collaboratore con l’esplosione dei gig workers, quello di un lavoro sempre più remotizzabile e iperconnesso e infine il trend della sostenibilità che vede le aziende sempre più attente alla loro responsabilità sociale e ambientale. Una tendenza quest’ultima che ha accelerato la crescita dei mestieri legati alle tematiche green e ambientali».
Secondo il rapporto di McKinsey Global Institute “Jobs lost, jobs gained“, entro la fine del decennio 375 milioni di lavoratori, ovvero circa il 14% della forza lavoro globale, potrebbe aver bisogno di cambiare la sua categoria professionale. Ed è per questo che termini come reskilling e upskilling assumono un’importanza cruciale ma, come ci dice Nicola Spagnuolo, Direttore di CFMT Centro di Formazione e Management del Terziario, non sono esaustivi, giacché bisogna porsi target definiti per capire cosa fare davvero dei programmi formativi. «Definire solo obiettivi tecnici può essere utile nel breve periodo ma nel lungo periodo no, perché tutte le competenze sono destinate a cambiare. La formazione deve puntare a inserire il lavoratore in un ecosistema in cui imparare ad imparare. Dall’addestramento bisogna passare all’apprendimento che è il vero valore aggiunto ed è un processo culturale che riguarda tutti: decisori pubblici, aziende e lavoratori» avverte Spagnuolo.
Per questo le grandi strategie formative portate avanti dalle grandi aziende oggi tendono a travalicare il confine professionale per guardare all’intero modello relazionale in cui il lavoratore è inserito. L’Università di Stanford, fucina dei talenti della Silicon Valley, già nel 2016 ha inaugurato un corso chiamato “Design Your life”, un percorso di studi dove non si insegnano competenze tecniche, ma si offrono strumenti per modellare la propria vita (anche lavorativa) in base alle passioni. «Le aziende devono far diventare i propri collaboratori attori del cambiamento non solo lavorativo, ma anche personale – sottolinea Zanfrini – Devono offrire ai lavoratori gli strumenti per disegnare il futuro senza limiti e preclusioni, creando contesti in cui i percorsi di apprendimento siano continui e aperti». Si tratta del cosiddetto “lifelong learning”, l’apprendimento permanente che punta sulle soft-skills, quelle competenze relazionali e sociali alla base della crescita professionale e non solo.
Ovviamente tutto questo processo esige anche risorse economiche. Secondo una indagine di CFMT e Manageritalia, il 43% dei manager italiani reclama maggiori investimenti in formazione. Una percentuale del 50% superiore rispetto al dato registrato nel 2020. Ma le aziende italiane sono pronte a questa richiesta sempre più pressante e ormai indispensabile? Secondo Laura Zanfrini, «le grandi imprese stanno da anni avviando programmi interessanti dal punto di vista della formazione, ma le Piccole Medie Imprese sono ancora indietro». E questo rappresenta sicuramente un grosso handicap per un paese come il nostro la cui ossatura si basa proprio sulle aziende di piccole dimensioni.
L’Italia è inoltre un paese caratterizzato da anni da un’altra questione: quella scolastica. «Il nostro sistema educativo è ancora troppo orientato a una logica post-fordista con una formazione che insegna ad essere ottimi dipendenti ed esecutori ma non imprenditori», denuncia Nicola Spagnuolo. «Il problema è probabilmente europeo e non è un caso se i Bezos, i Musk, gli Steve Jobs da noi manchino. Una volta si diceva: la scuola italiana è lontana dal mondo del lavoro. Non è vero: è lontana da come il mondo del lavoro dovrebbe essere oggi per essere competitivo».