Le regole della buona scuola

Society 3.0


Le regole della buona scuola

Come evitare che uno studente si senta un fallito e molli le lezioni? Una docente che ha aperto scuole in aree difficili fornisce alcuni elementi per individuare dove stia davvero il problema.

Quando Rachele Furfaro era piccola, la scuola era un luogo in cui si sentiva un’esclusa perché gli insegnanti le dicevano che non capiva le spiegazioni. Quando ci è tornata come insegnante di ruolo, invece, è stata lei a non volerci restare: «Volevo curare la ferita infertami da un sistema scolastico che non rispondeva al mio desiderio di sapere, e pensavo a una scuola diversa da quella diffusa oggi in Italia, dove si registra un tasso di abbandono scolastico del 13,8%, tra i più alti d’Europa», ci racconta. Così, nel 1985, Furfaro, oggi promotrice del primo Think Tank per l’Educazione – Rete Nazionale per una riflessione sulla scuola, ha preso spunto dalle teorie di Célestin Freinet, «grande pedagogista del Novecento e ideatore di una scuola popolare, sociale e cooperativa» e ha inaugurato la prima sede delle scuole Dalla Parte dei bambini, che da allora è diventata un network che ospita 1.300 bambini dai 6 ai 13 anni.

La sua esperienza di successo, ora riassunta nel saggio La buona scuola-Cambiare le regole per costruire l’uguaglianza, in uscita per Feltrinelli, ha dimostrato che un modello alternativo di scuola è possibile e basta ad azzerare i tassi di abbandono anche in aree difficili, come i quartieri Spagnoli di Napoli, dove opera una delle sue scuole.

Fantasia al comando

Ma quali sono i criteri per riconoscere una scuola che funziona, ossia che è buona rispetto alle altre? «Il nostro punto di partenza – riassume Furfaro – è ritenere l’apprendimento come qualcosa che i bambini fanno in gruppo, non un’attività che si svolge in una relazione individuale tra bambino e maestra e solo sugli argomenti fissati dal programma, perché è ovvio che questo secondo tipo di percorso non crea motivazioni ad apprendere». A suo avviso, quindi, la prima caratteristica della “buona” scuola è che fornisce agli alunni le ragioni per imparare: «Quando insegniamo a scrivere, noi pensiamo al perché un bambino dovrebbe sentirsi stimolato a farlo», esemplifica la docente. «Noi mandiamo agli alunni delle lettere cui devono rispondere, chiediamo di raccontare di sé per iscritto, in modo da fare di un codice alfabetico da imparare pedissequamente qualcosa dotato di senso. Lo stesso facciamo per la lettura: non la facciamo vivere come un’abilità astratta, ma come un modo di sperimentare mondi nuovi. E se io metto a disposizione dei libri o ricorro a silent book, fatti solo di immagini, cui il maestro e l’allievo insieme sono chiamati a dare parola, il bambino si appassionerà a quello che un libro fa immaginare. È la fantasia il segreto per catturare l’attenzione di uno studente».

Presenza fondamentale

Un altro tratto della buona scuola, secondo l’autrice, è che avviene in presenza, anche se non necessariamente in classe. «I test Invalsi hanno dimostrato che con le lezioni a distanza non c’è stata nessuna evoluzione nei ragazzi; anzi, un ragazzino su due è rimasto allo stesso livello o regredito». E se da un lato Furfaro cita come esempio virtuoso la Danimarca, dove gli studenti si sono divisi in piccoli gruppi per andare in classe a rotazione, nelle sue scuole gli alunni hanno potuto recuperare fino ad agosto le lezioni che non avevano svolto in precedenza. La seconda regola, dunque, è: «La scuola in presenza ha un valore perché l’apprendimento avviene in una relazione con gli altri, non in un corpo a corpo solitario con il libro».

Prima si inizia meglio è

Un terzo elemento distintivo della buona scuola è che inizia il prima possibile: numerosi esperti sostengono che prima si coinvolge il bambino in un percorso educativo, maggiori sono possibilità che completi il suo ciclo scolastico. Non è un caso che la minore dispersione scolastica si registri dove più sono presenti i servizi educativi per la prima infanzia, «ovvero in Emilia e Lombardia dove è colmato il 37% del fabbisogno di nidi, mentre in Campania tocchiamo il 6%, in Sicilia il 9% e in Calabria il 7-8%. In questo caso, comunque, l’accento non va sulla alfabetizzazione precoce, ma su una modalità di stare al mondo che usa il gioco per imparare a ragionare, a stare in relazione con gli altri, a predisporsi all’ascolto. Tutte capacità che sono determinanti per il successo accademico negli anni successivi» dice Furfaro.

Parola d’ordine inclusione

Infine, la buona scuola è quella inclusiva, capace di annullare le differenze tra gli alunni, ma anche di coinvolgere i genitori nel lavoro di apprendimento. La famiglia è fondamentale per l’educazione perché è lei che sceglie la scuola: se sta fuori dal processo educativo o se va in direzione opposta agli insegnanti, il bambino non sa dove stare e non impara. «Per questo motivo, noi promuoviamo incontri continui con i genitori, riunendoli in gruppi che si incontrano ogni 45 giorni. L’obiettivo è comunicare che insegnanti e parenti non sono antagonisti, bensì alleati in un contesto di affido in cui il nostro giudizio non valuta se uno, per esempio, sa scrivere il verbo avere con o senza l’acca, ma quale percorso complessivo sta facendo, a partire dal background di ogni alunno. Non posso valutare un bambino che vive nei Quartieri Spagnoli, con genitori poco colti, come uno che abita a Merano e cresce bilingue in una casa ricca di libri. Il progetto educativo deve tenere conto di come un ragazzo è arrivato fin lì, su quali mezzi ha potuto contare fino a quel momento. Infatti, chi decide di abbandonare la scuola in realtà non lo fa di colpo; piuttosto viene da lunga storia di frustrazioni e incomprensioni, in cui il metodo e le aspettative dei docenti non si sono mai adattate al singolo». E come è capitato a una bambina troppo curiosa, di nome Rachele, di sentirsi dire che non capisce le cose, succede a tanti ragazzi di sentirsi stupidi o poco portati per lo studio, mentre non sono né l’una né l’altra cosa. Il problema, però, è che, senza aiuto, finiscono per danneggiarsi e mollare la scuola. Invece dovrebbero mollare una scuola. Quella inadatta alle loro esigenze.

Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​