Lavoro: quanto conta il purpose personale

Society 3.0


Lavoro: quanto conta il purpose personale

Cosa voglio fare davvero da grande? E soprattutto, chi voglio essere? Le domande da farsi per trovare il proprio scopo, esattamente come fa un’azienda.

Nell’ultimo anno, in mezzo alla pandemia, ho deciso di lanciarmi in un’attività divulgativa su Instagram. Inizialmente, l’obiettivo era di mettermi alla prova come content creator verso un target giovane, sugli argomenti a cui tengo di più: le digital skill e la contaminazione dei saperi, vedremo come poi è mutato verso la scoperta del purpose personale.

Poi, come spesso accade quando ci si appassiona a qualcosa di nuovo, le motivazioni che mi portavano a postare quasi quotidianamente sono mutate sotto le mie mani, soprattutto grazie ai feedback delle persone che iniziavano a seguirmi.

Mi sono trovato a rispondere a commenti sempre più elaborati, ben argomentati, brillanti, anche critici, di liceali, universitari e neolaureati che spostavano spesso l’attenzione dalle competenze, digitali o contaminate che fossero, a un quesito che stava più a monte: “Cosa voglio fare davvero da grande? E soprattutto, chi voglio essere?”

Per tentare di rispondere allontanandomi dalle solite frasi fatte, ho iniziato a studiare l’argomento e le sue varianti sul tema: la motivazione, il “flusso di vita”, il “lavoro profondo”, e la mission personale, che oggi ha cambiato nome e in parte pelle, diventando “purpose”, il nostro scopo.

Ho capito quanto la sfida del proprio purpose personale non riguardasse solo i ragazzi, ma la maggior parte degli adulti. Persino manager e imprenditori apparentemente appagati dal lavoro, ma che nei momenti di sincerità, ammettono di “sentire che manca qualcosa di importante” e di “percepire un vuoto che fa rumore”.

Per avvicinarci al nostro purpose personale, possiamo partire muovendoci in profondità dentro noi stessi, ponendoci domande mirate. 

Un modo per farlo è giocare con la Matrioska dei perché. I “perché?” sono la killer application della curiosità. Non a caso i bambini, le creature più curiose del pianeta, non fanno altro che ripeterli con ostinazione. La Matrioska procede in questo modo: iniziate con una domanda generale sul vostro lavoro, lo studio, o la vita, dopodiché iniziate a stilettare in profondità con i perché.

Ecco la mia Matrioska dei perché lavorativi:

– Giulio, ti piace il tuo lavoro?
Sì, sostanzialmente sì.

– Perché?
Perché lavoro nella formazione, nell’educazione…

– E perché ti piace la formazione?
Perché mi permette di formare tante persone imparando cose nuove e progettando nuove idee.

– E perché ti piace?
Perché mi piace tantissimo lavorare sulle idee e trasformarle in prodotti che prima non esistevano.

– E perché ti piace?
Perché quando rielaboro delle idee e creo qualcosa di originale, che sia un testo, una canzone o un prodotto formativo sono felice.

Nel farlo, mi sono stupito di un elemento a cui non avevo mai fatto attenzione, e che è saltata fuori alla penultima domanda: a farmi amare la formazione non è tanto la relazione con gli altri, quanto lo sviluppo di idee formative. Non sono un istrione da palco, sono un cavolo di nerd che si presta a stare davanti a un pubblico per divulgare idee: è questo ad appassionarmi.

Un altro elemento su cui confrontarsi sono le 3 Core Questions, altre 3 domande elaborate dall’autrice Susan Caine nl testo Quiet. Vediamole, e ragioniamoci insieme.

La prima Core Question è: Cosa volevi fare da bambino/a? 
Cosa rispondevi quando ti chiedevano cosa avresti voluto fare da grande?

La specifica risposta potrebbe anche essere fuori bersaglio, ma non l’impulso sottostante. Se volevate fare l’astronauta, cosa significava? Essere un avventuriero, un esploratore? Oppure celava la passione per la tecnologia delle astronavi? Se volevate fare la ballerina, desideravate gli applausi o adoravate l’ebbrezza dei movimenti danzanti?
Secondo Cain: «In parte, da bambino sapevi di te più di quanto credi di sapere oggi».

Seconda Core Question: Quali sono le mansioni verso cui tendi a gravitare?
Quali sono gli aspetti del vostro lavoro che vi attraggono come calamite, sui quali cercate di passare la maggior parte del tempo? 

Nel mio lavoro, appena si palesa l’occasione mi tuffo allo sviluppo di prodotti innovativi: ci dedico tutto il tempo possibile, anche nel week end. E guarda caso, anche quando facevo il musicista preferivo scrivere le canzoni che suonarle dal vivo.

Terza Core Question: Per chi o che cosa provi invidia?
​La gelosia è un brutto sentimento ma dice la verità. In genere, invidiamo coloro che sono (o ci sembrano) ciò che desideriamo essere. Lo so, questo punto potrebbe risultare irritante e controverso. È sbagliato a prescindere essere invidiosi? Non sarebbe meglio chiedersi di chi proviamo ammirazione?

No. L’invidia ci orienta con estrema sincerità su ciò che ci interessa davvero, ma non siamo ancora riusciti a raggiungere. L’ammirazione è un sentimento bellissimo, ma può essere disinteressata e di minore importanza per noi, in questo caso.

L’invidia è un sentimento umano. Come la rabbia o la paura, è utile: sta a noi gestirla. Può rivelarsi uno sprone formidabile nell’indirizzare le energie, per migliorarci e migliorare ciò che esiste intorno a noi, allora.

E voi?

Cosa amavate da bambini?

Quali sono le attività verso cui gravitate?

Chi invidiate?​

La mia prima "startup" è stata una rock band in cui ho suonato per dieci anni, poi la vita mi ha portato alla cultura digitale. Ho pubblicato numerosi saggi, tra cui #Contaminati e Digital Skills, e il romanzo I sogni di Martino Sterio. Oggi sono Partner e Digital Learning Strategist in Newton, dove sviluppo percorsi di innovazione per grandi aziende, e coordinatore Master Digital per la Business School Sole24Ore. Contaminare la scrittura con la formazione mi rende felice.​