La Tv che fa ancora gli italiani

Society 3.0


La Tv che fa ancora gli italiani

Nella Giornata Internazionale della Televisione dell’ONU, Giorgio Simonelli racconta a Changes perché i contenuti televisivi rappresentano il collante culturale e sociale di un paese eterogeneo e diviso.

Nella Giornata Internazionale della Televisione dell’ONU, Giorgio Simonelli racconta a Changes perché i contenuti televisivi rappresentano il collante culturale e sociale di un paese eterogeneo e diviso.

​Il 3 gennaio 1954 era domenica. A Milano intorno alle 11 di mattina, nella sede Rai di corso Sempione, una giovane Fulvia Colombo si apprestava a recitare le prime parole della Televisione italiana. “La Rai − Radiotelevisione Italiana inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive“. Una frase semplice, quasi formale, che finì per la prima volta nelle case degli italiani, o meglio dei 90 italiani quel giorno abbonati al servizio televisivo. Pochi, pochissimi, che divennero però 24.000 in un mese, 88.000 in un anno, per poi superare il milione nell’arco di quattro anni.

Mentre in Italia la Tv, costola della radio, muoveva i suoi primi passi, nel mondo si imponevano già due modelli dicotomici: quello della Tv commerciale americana della NBC, nata negli USA nel 1939 e quello europeo della BBC, lanciata nel Regno Unito nel 1936.
Il Professor Giorgio Simonelli, opinionista della trasmissione Rai TvTalk insegna Storia della Televisione alla Cattolica di Milano. «La Tv italiana si ispira da subito a quella britannica, con il motto del suo primo direttore generale sir John Reith: istruire, informare, intrattenere» ha detto Simonelli. «Tuttavia esiste una via italiana della TV, che non poteva prescindere dall’analfabetismo diffuso, dalla scarsa industrializzazione e dalla predominante cultura cattolica».

Gli italiani, popolo diviso in tante culture e dialetti differenti, davanti al televisore incominciarono a conoscersi, dopo aver forzatamente convissuto nelle trincee della Grande Guerra e durante la Seconda Guerra Mondiale. «Trasmissioni come Campanile Sera fecero conoscere le diverse tradizioni delle province italiane, che si sfidavano con toni anche aspri, tanto che la RAI decise di vietare le sfide tra nord e sud, per non alimentare contrapposizioni localistiche eccessive» ha osservato Simonelli.
L’Italia che ricostruisce, l’Italia del boom economico è anche l’Italia della televisione. Un paese che tifa la domenica sera dinnanzi alla Domenica Sportiva e che il giovedì sera trattiene il fiato per i concorrenti di Lascia e Raddoppia. È qui che il “fenomenologico” Mike Bongiorno, come lo definì Umberto Eco, guida i partecipanti nelle loro sfide tra sketch e tensione narrativa ben studiata.
Ma il quiz non è solo intrattenimento, è istruzione di massa, conoscenza nozionistica, certo, ma pur sempre cultura. L’obiettivo pedagogico della prima televisione raggiunge il suo apice con il mitologico Non è mai troppo tardi (1960-1968) del maestro Alberto Manzi, intento ad insegnare a leggere e a scrivere agli italiani, un popolo che nel 1961 presenta ancora un tasso di analfabetismo dell’8,3%.

Istruzione, ma anche intrattenimento, con i grandi varietà (CanzonissimaIl MusichiereStudio Uno) e con gli sceneggiati che portarono sul piccolo schermo la prosa italiana e internazionale. E la politica? Assente. Una mancanza non casuale, giacché nella RAI di Ettore Bernabei (DG RAI dal 1961 al 1975) i temi del dibattito politico, diviso tra cattolicesimo e ideologia marxista, erano praticamente silenziati e oggetto di censura. I politici in Tv arrivano in Italia solo con Tribuna elettorale nel 1960, con quelle prime puntate che ci restituiscono ambienti ovattati e tante sigarette accese. Il primo partecipante fu il DC Mario Scelba, intento a spiegare le modalità di voto per le vicine Elezioni Amministrative. La finalità, insomma, era ancora una volta pedagogica.

La televisione che superava gli anni ’60 ben presto dovette fare i conti con il vento di cambiamento delle contestazioni giovanili, delle nuove mode, degli attriti generazionali, quel vento che nelle sue frange estreme scivolerà nella violenza di strada e impugnerà le P38 e che nell’etere farà nascere le radio libere. Ed ecco che gli anni ’70 italiani portarono con sé il proliferare di piccole antenne, che insidiarono il monopolio RAI.
La prima emittente privata fu TeleBiella, nel 1972, poi arrivarono Telealtomilanese, a Busto Arsizio, e Antenna 3 Lombardia. Piccole emittenti che, secondo Simonelli, «meglio della romanocentrica RAI esprimevano le mode e le esigenze dei territori». Il successo fu immediato, tanto che un imprenditore edile milanese decise nel 1976 di rilevare Telemilano e fondare la holding Fininvest, acquistando nel 1982  Italia 1  e nel 1984 Rete 4 . Quel rampante businessman era Silvio Berlusconi.
Programmi come Drive In, con i loro colori, le loro pailettes, le loro capigliature forzatamente alla moda, diventano emblema degli edonistici anni 80. Un’esplosione di nuove voci, trainate dal vero motore del business: la pubblicità.

«La pubblicità in RAI era poca e quindi appannaggio dei grandi gruppi industriali» ha sottolineato Simonelli. «Con la nascita dell’emittenza locale anche le PMI scoprono la TV e il suo grande potere di risonanza, contribuendo alla crescita economica del settore». Il consumo era sdoganato e la pubblicità usciva dal contenitore di Carosello, per entrare nelle trasmissioni, intervallare i film, smettendo i panni del peccato da nascondere e da cui redimersi. «La RAI quasi si vergognava della pubblicità basti pensare che il 2 novembre Carosello non andava in onda, per rispetto del giorno dedicato ai defunti». La televisione il 21 novembre 2019 festeggia la sua ventitreesima Giornata Mondiale ed è cambiata nei contorni e nella fruizione. Piattaforme on demand come Netflix o Amazon Prime Video sono diventate il nuovo telecomando. Nel 2018, secondo il CENSIS, quasi il 10% degli italiani, ha guardato la TV collegandosi a dispositivi e non al solito schermo. Addio vecchia televisione? «Nient’affatto: TV vuol dire linguaggi e format propri» ha sottolineato Simonelli. «Comunque la si guardi, su smartphone, tablet o Televisore, la Tv non muore affatto. Cambia, ma sopravvive». Quella cattiva maestra di popperiana memoria, insomma, ringiovanita dal web e dalla diffusione social, è pronta ad emulare la madre-radio e resistere a lungo, in diverse forme, nel cuore, nelle case e nella cultura degli italiani.

Giornalista, pugliese e adottato da Roma. Nel campo della comunicazione ha praticamente fatto di tutto: dalle media relations al giornalismo. Brand Journalist e conduttore radiofonico, si occupa prevalentemente di economia, energia ed innovazione. Oltre la radio ama la storia e la politica estera.