Il lessico calcistico è più veloce della palla
Siamo al sesto minuto del secondo tempo supplementare della partita di calcio leggendaria per antonomasia: Italia-Germania, semifinale dei Mondiali messicani del 1970. I tedeschi h
La musica è uno degli strumenti più efficaci nella lotta per i diritti LGBTQIA+. Una nuova generazione di artisti avanza e mette al centro la persona.
La musica pop è sempre stata un incubatore formidabile di cambiamenti sociali e culturali. Almeno dall’inizio dell’era della musica registrata (ma in realtà anche da prima), molte trasformazioni che avrebbero in seguito investito la società nel suo complesso sono state annunciate, e per certi versi sperimentate, da cantanti, musicisti e performer. Nella maggior parte dei casi si è trattato di istanze definibili come progressiste: dal pacifismo e la non-violenza all’auto-affermazione femminile e delle minoranze di ogni tipo, dall’atteggiamento non proibizionista nei confronti delle droghe a un rapporto libero con la sessualità, dal rifiuto del razzismo a quello dei dogmi ideologici. Tutto ciò all’interno di un rapporto intimamente contradditorio con l’industria musicale e dello show business, realtà che per loro natura da un lato tendono a banalizzare e svuotare di significato idee, cause e stili di vita alternativi a quelli dominanti, ma dall’altro – proprio in ragione della loro potenza e pervasività nell’immaginario collettivo – contribuiscono enormemente alla diffusione e all’accettazione di ciò che in ogni epoca si pone in antitesi al mainstream.
Non stupisce, quindi, che negli ultimi anni uno degli strumenti più efficaci nella lotta per i diritti delle persone trans, gender fluid, non binarie sia proprio la musica. Più per quanto riguarda gli ambiti pop, r&b, dance, elettronici che per il rock, un genere che – con tutte le eccezioni del caso – sconta ancora una tradizione di machismo e maschilismo difficile da cancellare. L’elenco di artist* ascrivibili alle categorie appena citate (anche se “categoria” è un termine che di per sé implica una limitazione, quando invece la motivazione principale è proprio quella di oltrepassare qualunque steccato di genere) sarebbe lungo e variegato. Da Anohni a Kae Tempest, dalla purtroppo scomparsa produttrice SOPHIE a Demi Lovato, da Arca a Sam Smith, da Janelle Monáe alla star Miley Cyrus, per proseguire con decine di altri esempi. Biografie diverse, atteggiamenti diversi nei confronti della propria sessualità e del modo di esporla e rappresentarla anche artisticamente, stili musicali diversi.
E tuttavia, senza voler fare un calderone unico che non tiene conto delle differenze – specificando inoltre che trans (o in transizione), non binario, pansexual, queer non sono per niente la stessa cosa, pur rientrando tutte queste definizioni nella più ampia causa LGBTQIA+ – nel suo insieme questa ondata di musicist* rappresenta una potente, e storicamente inedita, riformulazione dei parametri sessuali nel contesto della musica pop.
Da questo punto di vista, un salto di paradigma e una accelerazione rispetto non solo al tradizionale dominio nell’industria musicale del concetto di binarietà dei generi – gli artisti uomini che si conformano a ciò che ci si aspetta dagli uomini in termini di vocalità, temi delle canzoni, fisicità sul palco; idem per le donne, ovviamente in posizione perennemente secondaria rispetto ai maschi – ma anche alla rappresentazione dell’omosessualità che spesso nel pop assumeva contorni esageratamente camp (si pensi al glam rock, o a certa discomusic) che riflettevano in realtà la stereotipata visione eterosessuale del mondo gay. In sostanza: gli uomini dovevano essere assolutamente uomini, le donne assolutamente donne e i gay assolutamente gay. E quindi rassicuranti.
Oggi, grazie soprattutto a questa nuova generazione di artisti, assistiamo invece a una decisa riappropriazione e orgogliosa affermazione del proprio posto nella società – e nel mondo dello spettacolo – da parte di persone che rivendicano appunto il più banale ma indispensabile dei diritti: quello di essere considerati appunto persone, non cliché, figurine o nel peggiore e più oscurantista dei casi delle “stranezze”. Non manca l’aspetto politico, come è naturale che sia: la presa di coscienza definitiva che la binarietà di genere non esaurisce la pluralità di opzioni esistenti nella realtà può passare anche da una canzone, da un video musicale o da una esibizione a un festival (questi ultimi sempre più attenti non solo alla parità di genere nei cartelloni ma anche alla apertura e alla rappresentatività di tutti i generi e tutte le identità).
Nello specifico musicale, come si dispiega la sfida alla concezione binaria del gender? Ci sono più aspetti. Molto importante, per cominciare, è quello dei testi. Oltre agli inni queer che fortificano il senso di comunità, abbiamo sempre più canzoni con testi gender-neutral, nei quali mancano riferimenti specifici al maschile o al femminile. Si tratta di un modo inclusivo di accogliere il pubblico nelle proprie storie, permettendo a chiunque di identificarsi a prescindere dalla propria identità di genere. Qualcosa che nel tempo potrà sicuramente favorire comprensione e – ci si augura, anche se la strada è lunga – eliminazione di pregiudizi.
C’è poi tutto ciò che ha a che fare con l’uso della voce e lo stile nel canto: il range delle tonalità e dei timbri è ampio e non conforme alle abituali aspettative su come dovrebbero cantare una donna o un uomo. Dal punto di vista dell’espressione di sé si entra quindi in una vera propria zona liberata, nella quale spesso gioca un ruolo determinante la tecnologia (si pensi all’utilizzo diffuso dell’auto-tune, strumento che sfuma le tradizionali differenze tra voci femminili e maschili creando un ibrido a volte difficile da identificare). Anche lo stile, il look, gli outifit, l’aspetto visivo della performance ridefiniscono le norme comunemente accettate su come ci si presenta su un palco, e soprattutto di come si può utilizzare in modo meno banale la molla della attrazione sessuale, che da sempre connota il rapporto tra le star e i/ le loro fan. Infine, ma non meno importanti, ci sono gli effetti sull’industria musicale e sulla società in generale.
La spinta a una maggiore inclusività rispetto a questi temi da parte del mercato discografico, dei giornali, di chi organizza concerti è qualcosa che, proprio perché non si tratta di una moda passeggera ma dell’emergere di una nuova sensibilità e di nuove soggettività, produrrà un cambiamento dal quale non si torna indietro. Allo stesso tempo, cantanti e popstar non binari, trans, queer possono diventare un modello di ruolo e un esempio di “influencer” una volta tanto utili per una generazione di ragazzi e ragazze in grado di mettere in discussione preconcetti e storture patriarcali. E che potranno, forse, costruire un mondo più aperto e tollerante.