Il lavoro è Gig

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Il lavoro è Gig

Agli utenti piace perché offre servizi a basso costo con un clic. Il lato B dell'economia on demand vale ormai l'1% del Pil, quasi 16 miliardi di euro, ma è fatto di impiegati sottopagati e con poche tutele.

Agli utenti piace perché offre servizi a basso costo con un clic. Il lato B dell’economia on demand (Gig economy) vale ormai l’1% del Pil, quasi 16 miliardi di euro, ma è fatto di impiegati sottopagati e con poche tutele.

Mentre i più erano concentrati a discutere di sharing economy, a Torino un gruppo di giovani fattorini di Foodora, piattaforma online che consegna cibo a domicilio, sfiancati da pesanti condizioni di lavoro, hanno deciso di scioperare, per denunciare la loro condizione di cottimisti sottopagati e senza tutele, accendendo così i riflettori sul fenomeno della Gig economy, conosciuta anche come economia dei lavori a tempo o economia on demand.  Questo mercato, secondo un recente studio di Crédit Suisse, in Italia vale già tra lo 0,1 e l’1% del Pil, che tradotto in cifre significa tra i 4 e i 16 miliardi di euro, con ottime prospettive di crescita. Del resto il modello piace la Gig economy : offre servizi a prezzi convenienti, per accedervi basta un clic, non ci sono intermediari, è flessibile ed efficiente. L’incontro tra la domanda e l’offerta avviene tramite portali web e app mobile e la gamma di servizi a disposizione va ben oltre al cibo: si va dalle auto con conducente, come quello proposto dalla tanto criticata Uber, a chi si offre per fare piccoli lavoretti di casa su Sfinz.com. E su marketplace specifici non mancano i professionisti freelance. Ce n’è per tutti i gusti e le necessità: videomaker, sviluppatori di software, giornalisti, doppiatori, designer. Esempi di una realtà variegata e complessa che si sta ampliando e non solo tra i giovani. ​

Tanto che anche il lavoro del manager può essere a chiamata. L’esempio viene da YourCfo e YourHr, due piattaforme da poco sbarcate in Italia dove Cfo e direttori delle risorse umane si sono messi a disposizione delle Pmi. Si tratta di un’evoluzione del vecchio manager a tempo che ha conosciuto fortune alterne una decina di anni fa. «All’estero questi marketplace rivolti a dirigenti esistono da tempo e operano con successo sul mercato», ha spiegato Andrea Pietrini managing director di YourCfo e membro dell’advisory board di YourHr. E le premesse perché facciano bene anche in Italia ci sono tutte vista la grande necessità delle Pmi di imprenditorialità, che però non possono permettersi all’interno, e la presenza sul mercato di un gran numero di dirigenti che operano come consulenti e di liberi professionisti».
Da qui l’idea della managerialità a consumo. «I professionisti in questo caso, su chiamata dell’ azienda, vanno in sede per un periodo di massimo sei mesi, studiano le problematiche e propongono le soluzioni», ha detto Pietrini. Rispetto agli altri marketplace, in questi caso, però, per potervi operare il manager deve superare una seria e scrupolosa selezione. Sei sono i livelli di colloqui da superare più un test attitudinale per verificare se dirigenti sanno lavorare in team. In tutti i casi, invece, non esistono uffici fisici, ognuno lavora da casa e si mette in contatto con il mercato tramite la piattaforma web. 

Gig economy: un marketpl​ace come cacciatore di teste

I guadagni? Non sono certo quelli dei liberi professionisti degli Anni ’90. I manager di YourHr e YourCfo, per esempio, hanno un reddito annuo medio che ruota attorno ai 100 mila euro lordi, il 10% del quale va al marketplace. Condizioni di tutto rispetto se paragonate a quelle proposte da altre realtà, a conferma che quello del lavoro on demand è un segmento che raggruppa realtà estremamente diverse l’una dall’altra. Gli esempi di Gig economy non mancano. Su Fiverr.com, per esempio, sito dove si possono trovare professionisti nel mondo della comunicazione, design grafica e tech, i lavori hanno un prezzo fisso a 5 dollari. Ma è possibile trovare richieste molto veloci da compiere per un freelance del settore, quindi se ne possono fare anche 10-20 al giorno, il che significa massimo 100 euro lorde al dì. Poi ci sono anche i casi estremi di portali dove il lavoro viene pagato solo se validato, quindi il rischio di non vedere un soldo non è poi così remoto.
Queste sono le istantanee di un mercato del lavoro profondamente cambiato, dove le buste paga di un tempo sono un ricordo. Oggi la parola d’ordine è “frammentazione dei guadagni” che restano bassi per rispettare i budget ridotti all’osso delle aziende. L’obiettivo dei nuovi lavoratori a chiamata è quello di avere un piccolo parco clienti, in modo che se uno dovesse saltare ci sono gli altri a garantire il sostentamento economico. «In mercati sempre più turbolenti, certezze non ce ne sono più nemmeno nelle grandi aziende», commenta Filippo Cutillo Hr director di Saes Getters. «E le tutele sono sempre meno anche per chi è contrattualizzato».
Tutto bene? Mica tanto, perché non possiamo permetterci di essere sempre connessi e di lavorare 365 giorni l’anno. Le persone continuano ad ammalarsi, accoppiarsi, fare figli. Dunque occorre trovare nuove formule di tutela, perché, come ha fatto notare anche Hillary Clinton, durante la sua ultima sfortunata campagna elettorale: «Sicuramente l’economia dei servizi su richiesta sta creando opportunità economiche e di innovazione eccitanti, ma solleva anche molte serie questioni su cosa intendiamo per buon lavoro in futuro». 

Non a caso all’estero, dove la Gig economy esiste da tempo, la discussione attorno alla necessità di trovare nuove forme contrattuali per i lavoratori on demand è già accesa. In prima fila ci sono gli Usa dove sono in corso diverse cause legali per capire se i lavoratori di Uber e non solo, possono essere considerati subordinati e non autonomi. Gli esperti americani, analizzando gli elementi concreti della relazione tra alcune piattaforme estere e i relativi lavoratori, infatti, hanno trovato elementi tipici della subordinazione.
In alcuni casi, per esempio, ci sono istruzioni dettagliate su come comportarsi in determinate situazioni. E questo può essere considerato esercizio del potere direttivo. Ma c’è anche un monitoraggio costante e una valutazione della performance, dunque esercizio del potere di controllo. Sono poi previsti compensi orari spesso rosicchiati dalle spese sostenute dal lavoratore per effettuare il servizio, a fronte di commissioni del 15-20% da versare nelle casse del marketplace. E sono solo alcuni esempi. Per trovare una soluzione al problema, negli Stati Uniti schiere di avvocati stanno dibattendo sulla necessità di creare una nuova classificazione di lavoratori che stia nel mezzo tra dipendenti e autonomi. Ma la formula giusta non è ancora stata trovata.

Ho lavorato per 20 anni nelle redazioni di riviste economiche (Gente Money, Panorama Economy) e digitali (News 3.0). Dal 2015 sono freelance. I temi che riguardano il lavoro e il management sono rimasti la mia passione, anche ora che scrivo per l’Italia dal Mozambico. ​​​