Generazione giocattoli rotti

Society 3.0


Generazione giocattoli rotti

Imperfezione è una parola da risemantizzare: l’esclusione da una “serie” è un’occasione di unicità e diventa un’occasione di riscatto.

Ero arrivato da soli due giorni a Bali e il manager di uno dei co-working space più famosi dell’isola, guardandosi intorno, mi disse: – Questo posto è pieno di broken toys, giocattoli rotti. A muoverli è la solitudine. Se capisci questo, hai capito il business. Rimasi turbato difronte alla realtà che plausibilmente si celava dietro quella vita da nomadi digitali a piedi scalzi sotto gli ombrelloni. Ma mi chiesi: cos’è un giocattolo rotto?

Quando un giocattolo si “rompe”, è subito estratto da una “serie”: ciò avviene nel processo di produzione e di vendita, ma anche se la rottura si verifica nelle mani di un bambino, per un difetto o per usura. In ogni caso – che venga scartato o che sia conservato, nonostante l’imperfezione – il giocattolo non sarà mai più uguale agli altri. È però innegabile: il guasto, pur privandolo di un valore economico, lo dota di una precisa straordinarietà; lo pone – fedelmente all’etimologia del termine – al di fuor dell’ordinario.

Allo stesso modo, quando un individuo si “rompe”, è subito sottratto da una “serie” di individui perfettamente funzionanti, rispetto ai quali avverte di essere in una condizione di inferiorità strutturale. Se tutti corrono, devo correre anche io; se tutti funzionano, devo funzionare anche io; e, invece – escludendo per un attimo le lacerazioni che insidiano la nostra vita privata –, l’insoddisfazione sul lavoro, una scelta lavorativa sbagliata, o l’incapacità di adeguarsi ad un percorso professionale definito, determinano un’inevitabile usura, con conseguente “malfunzionamento”. Ralph Waldo Emerson, poeta e filosofo statunitense, scriveva che «pattinando sopra un ghiaccio sottile, la sola speranza di salvezza sta nella velocità». Dunque, bisogna camminare al ritmo frenetico che la società ci impone, altrimenti rimarremo fermi, immobilizzati dalla paura del gelo; o, se non saremo abbastanza veloci, sprofonderemo, ci romperemo.

Lo strappo non solo stravolge irrimediabilmente la forma che ci era stata cucita addosso, ma lacera la regolarità confortante di un mondo che diventa problematico e incontrollabile. Insomma, la rottura del congegno provoca uno squarcio dell’intero orizzonte che lo presuppone: si è improvvisamente “gettati” – nel senso heideggeriano – in un mondo di cui non si ha alcuna conoscenza preliminare, e costretti ad agirvi, oltretutto con una evidente stortura. Ed ecco (paradossalmente nel migliore dei casi) la fuga: spesso senza alcuna idea sulla direzione da prendere, e spesso in un altro continente, con la sola speranza di poter rimediare alla propria rottura dichiarando ciò che non si vuole essere. Esibendo unicamente lo strappo, la lacerazione che anche io ho dovuto riconoscere nei volti dei nomadi attorno a me.

L’uscita dalla “serie” dev’essere riscattata in un altro modo

Così come i giocattoli, gli individui, da oggetti inermi di scelte altrui e di funzioni predefinite, possono infatti diventare soggetti autonomi, se riconoscono il loro enorme potenziale di azione. Nonostante gli innumerevoli giocattoli ricevuti durante l’infanzia, la mia preferenza ricadeva sempre su un tirannosauro di plastica, diventato ben presto scolorito e rovinato – “rotto” rispetto a molti altri che possedevo. Gli assegnavo il ruolo da indiscusso protagonista in qualsiasi gioco, anche quelli che non avevano nulla a che vedere con i dinosauri; diventava ciò che immaginavo.

Non è mai il contenuto del giocattolo a determinare il gioco: anzi, quanto meno il giocattolo dichiara la sua funzione in modo univoco ed esplicito, quanto più può far parte di qualsiasi invenzione.

È così anche per noi: è il gioco (la nostra capacità di trasformazione, il nostro talento, l’abilità di valorizzare le opportunità) a determinare che tipo di giocattolo siamo, non il nostro presunto malfunzionamento. Anzi, l’esclusione da un mondo di giocattoli omologati e costretti dalle catene della routine, se valorizzata nel modo giusto, soprattutto nel tessuto economico e sociale, può dar vita ad una spinta creativa e offrire infinite possibilità di azione.

A patto, però, di non rimanere solo dei giocattoli rotti.

Dopo aver subito la rottura e aver abbandonato quella vita costruita sulla velocità, dobbiamo innanzitutto avere fede nella nostra possibilità di reinvenzione – come il mio dinosauro, capace di creare un “gioco” dovunque. Nel concreto, in tempi fluidi e imprevedibili, ciò significa sviluppare di volta in volta le abilità necessarie per fronteggiare i cambiamenti: se abbiamo lasciato un posto fisso, è qui, nella nostra capacità di metamorfosi, che dobbiamo riporre la nostra sicurezza.

Autonomia e indipendenza non significano solitudine. E un insieme non costituisce necessariamente una “serie”. Tanti giocattoli rotti che giocano con la loro imperfezione possono creare una comunità dove la diversità è il punto di forza.

Trasformiamoci nella nostra invenzione: dobbiamo saper vendere e raccontare il nostro “gioco” in maniera accattivante. A causa della nostra precedente rottura, abbiamo perso un libretto di istruzioni e ora spetta a noi rivelare le nostre abilità e funzioni.

Rianimare l’inanimato, risemantizzando l’imperfezione

Dobbiamo comportarci come il bambino di Walter Benjamin che «vuole giocare con la sabbia e si trasforma in fornaio, vuole nascondersi e diventa guardia e ladro», e costruire «un piccolo mondo dentro a quello grande» dov’è folle desiderare di essere un prodotto funzionante e adatto al gioco, se il mondo stesso «è pieno di cose che sono oggetto di interesse […]; e si tratta delle più azzeccate».

Economista, consulente strategico e corporate trainer. Si è formato all’Università Bocconi di Milano e all’INSEAD di Fontainebleau, e ha girato il mondo per lavoro e per passione: Head of Business Development Unit di Finmeccanica in Russia, Senior Manager di McKinsey a Londra e Principal di AlphaBeta a Singapore, dove ha gestito progetti con aziende del calibro di Google, Uber e Microsoft. In precedenza, ha lavorato anche presso Goldman Sachs e le Nazioni Unite a New York. Tornato a Bari, ha fondato la Disal Consulting e si occupa di ricerca, consulenza, comunicazione e formazione per grandi aziende italiane (Ferrari e UniCredit), colossi digitali (Netflix e Amazon), istituzioni multilaterali (World Economic Forum) e governi nazionali (Francia, Cina e Germania). Insegna alla IE Business School di Madrid e alla Nanyang di Singapore, e dirige il Master in Digital Entrepreneurship presso H-Farm, dove cerca di trasmettere l’importanza dello storytelling per la riuscita di un progetto imprenditoriale. Dopo il successo del suo primo libro Flow Generation - manuale di sopravvivenza per vite imprevedibili, ha pubblicato con Hoepli Phygital - il nuovo marketing tra fisico e digitale.