Chi abiterà il mondo di domani?
Uno studio recentemente pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences, tra le più autorevoli pubblicazioni scientifiche statunitensi, ha previsto come cambieranno
Sempre più frequentemente mi capita di imbattermi in un’espressione e domandarmi se si tratta di un ossimoro o di uno scorretto, o addirittura forzato, accostamento. E questo capita sempre più spesso quando c’è da dimostrare di essere inclusivi.
Da studente, avevo una memoria solidissima: di fronte a un testo letterario ero in grado di scovare le più strambe figure retoriche, attingendo con i miei ricordi agli angoli più reconditi del manuale scolastico. C’è, però, una figura retorica che non ho mai dovuto memorizzare; l’interesse che le rivolsi dal primo istante è stato risolutivo per imprimerla nei miei pensieri: l’ossimoro. Molti di voi lo ricorderanno: è quello strano procedimento che consiste nell’unire due parole o espressioni che sono inconciliabili nel significato, ma la cui contrapposizione viene superata dal loro accostamento. Un esempio: l’assordante silenzio. Quanta potenza dall’unione di due opposti!
Sempre più frequentemente mi capita di imbattermi in un’espressione e domandarmi se si tratta di un ossimoro o di uno scorretto – o addirittura forzato – accostamento: il «lusso inclusivo». Il lusso è per definizione esclusivo: compete solo alcuni, escludendo altri da una sua fruizione; è cioè riservato a pochi privilegiati; punta sulla rarità, a discapito dell’accessibilità.
La prima impressione è quella di trovarsi di fronte a un surrogato del greenwashing: in questo caso, una strategia per presentare sotto una facciata di inclusività beni ed esperienze che non lo sono affatto. È in questa ottica che spesso ho letto le collaborazioni tra i marchi di fast fashion e i luxury brand: capsule collection accessibili che danno l’illusione (ma non di certo la sostanza) di esclusività. Lo stesso vale per la tendenza di numerosi chef stellati di dar vita a pasticcerie, panifici, locali street food di qualità senz’altro eccellente. L’offerta è accessibile, ma non prevede alcun accesso al lusso di un menù degustazione che offre un’esperienza estetica, oltre che gastronomica, con annessi effetti scenografici e memorie indelebili.
Forse però per comprendere questo strano accostamento tra «lusso» e «inclusività» e scoprire se si tratta davvero di un ossimoro vincente è necessario interrogarsi sull’attuale evoluzione dei termini connessi alla tematica; e, eventualmente, invertire l’intero paradigma.
Oggi, in un mondo in cui il rispecchiamento dell’identità rappresenta una delle prime scelte d’acquisto, il significato della parola «esclusività» sta cambiando: non dipende più dall’esclusione e, dunque, dal costo, ma dal grado di identificazione con i valori espressi da quel bene.
Soprattutto per le nuove generazioni, un bene è esclusivo non (anzi, ammettiamolo, senza retoriche, non solo) per il brand, ma anche per il rispetto di una rinnovata idea di lusso: la sostenibilità ambientale; i diritti di genere; l’impegno sociale; il body positivity, e così via.
Persino la mitologia di un marchio, fino a pochi anni fa inattaccabile, non è più sufficiente per rappresentare uno stile di vita percepito come «lusso». In altre parole, l’appartenenza a un’élite non si gioca più e non solo sul campo socioeconomico, quanto su quello della condivisione dei valori.
Dunque, oggi il «lusso inclusivo» è un riuscitissimo ossimoro. Anche questa volta, i ricordi del mio manuale di analisi retorica mi hanno aiutato.