La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Lo sharing del sapere aziendale assume un ruolo fondamentale per prendere coscienza di quello che si è, diventare più forti e competere ad armi pari con i colossi internazionali.
La parola d’ordine è condividere. Non solo nell’economia e nella società, ma anche all’interno delle aziende. Le imprese più evolute hanno infatti capito che per affrontare mercati sempre più complessi, oltre all’innovazione, lo sharing del sapere aziendale assume un ruolo fondamentale per prendere coscienza di quello che si è, diventare più forti e competere ad armi pari con i colossi internazionali. Gli anglosassoni lo chiamano Knowledge management, termine coniato nel 1986 dal consulente americano Karl Wiig. «Il Knowledge management è costruzione, rinnovamento e applicazione sistematica esplicita e deliberata della conoscenza per massimizzare l’efficacia legata al sapere di un’impresa e il rendimento del suo patrimonio conoscitivo», diceva Wiig. L’obiettivo è prevedere i momenti di crisi, superarli e continuare a crescere.
Ma attenzione, condividere dati e informazioni non basta, è soprattutto la conoscenza tacita che deve poter essere codificata e messa a disposizione di tutti i dipendenti, «e delle risorse esterne all’azienda», ha precisato Sergio Campodall’Orto, docente di Imprenditoria presso la facoltà di Design del Politecnico di Milano. «La condivisione del sapere consente infatti a tutte le funzioni di conoscere su quali traiettorie e sviluppi si sta muovendo l’azienda e di partecipare al suo processo di ricerca e sviluppo». Di solito, invece, i livelli bassi dell’organigramma aziendale vengono esclusi o lasciati lontani dall’ attività esecutiva e dai poteri decisionali. Nulla di più sbagliato «perché spesso sono proprio loro a percepire meglio di chiunque altro i bisogni della clientela o a capire quali sono i processi lavorativi che vanno migliorati», continua Campodall’Orto. Insomma, come diceva Lisa Gansky, imprenditrice statunitense e autrice del bestseller The Mesh : «Chi fa business sull’innovazione deve essere aperto a cosa accadrà domani e le migliori idee possono arrivare dovunque e da chiunque. Ciò di cui le imprese hanno bisogno per innovare è proprio la fiducia nel futuro dell’openness e della collaborazione». Concetto che le grandi imprese multinazionali hanno assorbito per tempo avviando questo processo con successo, basti pensare a nomi come Samsung, General Electric, Eni, Bmw solo per citarne alcune.
Ma le Pmi, dove esiste un’organizzazione interna di tipo piramidale, fanno ancora fatica a capire che la condivisione della conoscenza può trasformarsi in un vantaggio competitivo importante. «L’eccessivo personalismo e accentramento delle responsabilità non aiuta il processo di trasformazione della conoscenza in cultura organizzativa», afferma Tommaso Cavalli, Partner di K Group società di consulenza che da 20 anni si occupa di Performance Measurement e Corporate Performance Management. «Lo scoglio più grande da superare è infatti staccarsi da una visione personale del business per abbracciare il concetto di sharing, ciò significa aumentare la responsabilità degli altri, parlare di obiettivi, di come sta andando l’azienda in modo trasparente, condividere le esperienze negative. Noi sollecitiamo molto le società a riflettere sui numeri non solo per generare report, ma per prendere più coscienza di quello che si è», incalza Cavalli.
Un modus operandi che diventa fondamentale soprattutto oggi con l’ingresso a gamba tesa della digitalizzazione e dell’informatizzazione nelle nostre aziende. «Due elementi che hanno portato all’esplosione della quantità di dati a disposizione delle imprese», continua Cavalli, «e alla convinzione che avere più informazioni a diposizione significasse avere più consapevolezza della propria identità aziendale. In realtà, però, tanti dati rischiano di far perdere il focus sul monitoraggio di un processo. Per questo è fondamentale razionalizzare i dati a disposizione e concentrarsi su quelli che servono nel momento in cui servono per poi condividerli con il personale e ragionarci sopra».
Per essere efficace però il Knowledge management esige un cambio di organizzazione e l’introduzione di un percorso di formazione preciso «attraverso il quale la risorsa umana capisce la situazione aziendale e i progetti futuri, valorizza le sue idee e le propone», precisa Campodall’Orto. E Cavalli, aggiunge. «Servono poi momenti di incontro tra i dipendenti di un determinato comparto aziendale, per favorire lo scambio di idee e conoscenze e questo non solo per innovare ma anche per capire in tempo i propri punti di forza, farli emergere e affrontare in modo opportuno momenti di crisi. Nel momento in cui la nostra economia stava vivendo il suo periodo peggiore, per esempio, le aziende più consapevoli della propria forza e identità sono state quelle più lungimiranti. Perché la consapevolezza di quello che si è aiuta ad anticipare il futuro». L’information technology fa poi la sua parte. «Grazie all’utilizzo di apposite piattaforme, social software e strumenti del web 2.0 la gestione della conoscenza diventa più facilmente partecipativa», dice Cavalli. Alla base però ci deve essere la volontà delle persone di considerare la conoscenza come un bene da condividere. «Imprenditori e manager potranno vincere sulla concorrenza solo se sapranno creare un contesto dove le persone, sempre al centro della politica aziendale, non vengono valutate solo per il loro sapere, ma anche per la capacità di scambiarla», chiosa Campodall’Orto.