Verso il tramonto del dollaro?

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Verso il tramonto del dollaro?

Il ritorno di Donald Trump mette in discussione un processo in atto che vede la valuta americana meno forte come moneta di scambio nelle transazioni commerciali e finanziarie. Un mondo multipolare in termini di valute-chiave è più stabile, sicuro, sostenibile?

«L’abbandono del dollaro come valuta di scambio nelle transazioni commerciali e finanziarie internazionali». Che anche la Treccani lo inserisca fra i neologismi, è la prova che il termine è ormai di uso comune. Di che termine parliamo? Ma di dedollarizzazione, ovviamente. Perché in questi anni si è cominciato a delineare in modo sempre più chiaro il processo verso un mondo nel quale l’assoluto dominio della divisa statunitense è messo in discussione.

Il dominio del dollaro risale agli accordi di Bretton Woods, cittadina del New Hampshire dove i leader delle potenze che stavano per mettere la parola fine al secondo conflitto bellico si riunirono nel luglio del 1944 per definire il nuovo ordine globale. Di cui il nuovo ordine finanziario avrebbe costituito un tassello fondamentale. Si gettarono le basi per la nascita di istituzioni quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. E si decise o, meglio, gli Stati Uniti imposero, che il sistema valutario internazionale sarebbe stato dollaro-centrico, che i commerci internazionali dovevano avvenire in dollari e che le principali materie prime, come il petrolio, dovevano essere compravendute in dollari. Una situazione che di fatto si è mantenuta fino a oggi, nonostante eventi come l’abbandono degli accordi di Bretton Woods deciso nel 1971 dal presidente Usa Nixon e la nascita dell’euro, entrato in circolazione nel 2002.

Il mondo “dollarizzato” ha sempre suscitato polemiche e rancori. Perché è sinonimo di un mondo a trazione occidentale, segnatamente statunitense. E perché è sulla centralità del dollaro che si basa l’efficacia delle sanzioni che il governo degli Usa impone a Paesi che considera ostili, utilizzando di fatto il dollaro come un’arma. Celeberrima al riguardo l’espressione utilizzata negli anni ‘60 del secolo scorso dall’allora ministro delle Finanze francese, e successivo Presidente della Repubblica, Valéry Giscard D’Estaing: definiva un “esorbitante privilegio” quello che veniva concesso agli Stati Uniti dal fatto che il dollaro era la moneta di riferimento per gli scambi internazionali. Perché in sostanza permetteva agli Usa di non curarsi troppo dei propri deficit, tanto ciò non avrebbe avuto ripercussioni sulla propria valuta perché tutti avrebbero continuato ad averne bisogno e a richiederla, proprio perché obbligati a utilizzarla e quindi a detenerne adeguate riserve. Nel 1961, nell’altrettanto celeberrimo I dannati della terra, libro manifesto dei movimenti per l’emancipazione di quello che ai tempi veniva chiamato Terzo Mondo, il filosofo e saggista Frantz Fanon in riferimento al dollaro commentava che «è garantito soltanto dagli schiavi ripartiti sul globo, nei pozzi di petrolio del Medio Oriente, nelle miniere del Perù o del Congo», accusandolo di «dominare con tutta la sua potenza quegli schiavi».

Dire dedollarizzazione significa dunque parlare di equilibri geopolitici. Che hanno preso a scricchiolare rumorosamente soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina. È proprio in questi anni, infatti, che si sono registrati una serie di passi, iniziative, tendenze, che raccontano di una dedollarizzazione in crescita. Al punto che il contrasto alla dedollarizzazione è entrato a pieno titolo nella campagna elettorale per le elezioni statunitensi. E Donald Trump appena eletto ha immediatamente ribadito il suo programma di imposizione di dazi altissimi ai partner commerciali intenzionati ad abbandonare il dollaro.

A parte la Russia, che le sanzioni occidentali per l’invasione dell’Ucraina hanno spinto a una dedollarizzazione quasi obbligata (anche la Borsa di Mosca ha smesso di utilizzare il dollaro), la Nigeria, uno dei maggiori Paesi produttori di petrolio al mondo, ha iniziato di recente a vendere petrolio greggio in naira, la valuta locale. L’Arabia Saudita sempre quest’anno ha deciso di non rinnovare il cinquantennale accordo con gli Stati Uniti che prevedeva che il petrolio saudita venisse venduto esclusivamente in dollari, annunciando l’intenzione di esplorare l’utilizzo di valute alternative come lo yuan cinese. C’è poi la questione della quota del dollaro nelle riserve valutarie globali, che resta dominante ma rispetto a vent’anni fa è scesa parecchio (dal 70% a meno del 60%). A vantaggio in particolare di quelle che il Fondo monetario internazionale chiama valute di riserva non tradizionali (ad es. dollaro australiano e canadese, o ancora lo yuan).

La sfida principale al dominio del dollaro arriva però dall’iniziativa dei BRICS (acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), le economie emergenti che da una quindicina d’anni si incontrano, aumentando di numero (nel 2024 si sono uniti Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran, e un’altra trentina di Paesi ha dichiarato l’interesse a farlo), per rafforzare relazioni e interscambi. Nella dichiarazione finale del vertice BRICS di fine ottobre a Kazan, in Russia, si legge ad esempio (paragrafo 65): «Accogliamo con favore l’uso delle valute locali nelle transazioni finanziarie tra i paesi BRICS e i loro partner commerciali».

Chiaramente lo sganciamento di una vasta parte del globo (i BRICS contano oltre il 40% della popolazione del pianeta, contro ad esempio il 10% dei Paesi del G7) da un sistema che è nato e si è sviluppato in senso dollaro-centrico, non può avvenire dalla sera alla mattina. Richiede che si metta in piedi una nuova architettura finanziaria, nuove istituzioni e nuovi meccanismi. In questa direzione va letta ad esempio la costituzione della New Development Bank, che ha iniziato a operare nel 2016 e si propone come una sorta di “Banca Mondiale” alternativa per i BRICS; la creazione del Contingent Reserve Arrangement, che dovrebbe fungere da alternativa al Fondo Monetario Internazionale; e BRICS Pay, lanciato ufficialmente proprio a Kazan, un sistema di pagamenti transnazionale alternativo allo SWIFT.

Per gli Stati Uniti ovviamente la dedollarizzazione è una minaccia. Ci sono analisti che ritengono che gli Usa non abbiano esitato ad affrontarla o almeno ad arginarla anche con la forza. Ad esempio, Giacomo Gabellini – autore del corposo volume “Dedollarizzazione. Il declino della supremazia monetaria americana” -, secondo il quale la guerra del Kosovo nel 1999, la guerra in Iraq del 2003 e l’attacco alla Libia del colonnello Gheddafi nel 2011 ebbero un impatto importante su iniziative e processi di dedollarizzazione in corso, fra i quali l’ascesa dell’euro. Allo stesso tempo, proprio la cosiddetta “militarizzazione” del dollaro sembra essere stata una delle cause che hanno spinto una parte del mondo verso la dedollarizzazione.

Le domanda finale da porsi è: equilibri geopolitici a parte, un mondo multipolare in termini di valute-chiave è anche un mondo più stabile, sicuro, sostenibile? Per provare a rispondere, occorre considerare prima di tutto che, se la dollarizzazione proseguirà – come molti segnali lasciano presagire -, per scalzare il dollaro da dove sta potrebbero volerci decenni. In ogni caso può essere significativo al riguardo ricordare quanto l’allora presidente russo Medvedev dichiarò nel giugno 2009 in occasione della prima riunione dei BRICS (che allora si chiamavano ancora BRIC, poiché il Sudafrica si unì nel 2010): «C’è una forte necessità di un sistema monetario internazionale stabile, prevedibile e più diversificato». Che la dedollarizzazione sia la ricetta giusta per arrivarci, sarà il tempo a dirlo. Ma almeno sulla bontà dell’obiettivo è difficile non concordare.

Giornalista, blogger, storytweeter. Laurea alla Bocconi. Da metà anni ’90 segue il dibattito sui temi di finanza sostenibile, csr, economia sociale. Blogga su mondosri.info. Homo twittante.​​​​