Quale futuro per le canzoni online

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Quale futuro per le canzoni online

Nel rapporto complicato tra artisti e piattaforme dedicate alla diffusione della musica in Rete c’è stata fino a oggi almeno una case history di successo, e si chiama Bandcamp.

C’è un esempio virtuoso di come si possano coniugare profitto e giusti riconoscimenti economici ai musicisti, creando inoltre una vera community basata sull’aggregazione “orizzontale” tra questi ultimi e i fan. L’utilizzo del participio passato non è casuale, perché il futuro di Bandcamp è diventato negli ultimi tempi sempre più cupo e le ipotesi sulla tenuta del suo modello di business sempre più pessimistiche.

Innanzitutto, cos’è Bandcamp e come funziona? La piattaforma è stata creata nel 2007 da Ethan Diamond, co-fondatore di Oddpost, insieme a un team di programmatori guidato da Shawn Grunberger, Neal Tucker e Joe Holt. Ideato come un market place nel quale gli artisti e le etichette possono caricare i loro dischi e il loro merchandising decidendo come e a che prezzo venderli (sia in formato fisico che in download), nel corso degli anni Dieci, in concomitanza con l’esplosione dello streaming e del successo in primo luogo di Spotify, si è connotata sempre di più come l’alternativa “sana” a un sistema che penalizza in modo persino grottesco chi produce musica. Se un passaggio in streaming su Spotify viene pagato mediamente tra i 0,003 e i 0.005 dollari, con una commissione del 30%, chi vende su Bandcamp ha diritto all’85% del ricavato, con la piattaforma che trattiene il 15% e oltre una certa cifra (5000 dollari) il 10%. Condizioni estremamente favorevoli, e i dati complessivi dimostrano quanto soprattutto per gli artisti indipendenti sia vantaggioso utilizzare Bandcamp, che dalla propria fondazione ha permesso un guadagno complessivo di più di un miliardo di dollari (193 milioni soltanto nel 2022). Durante la pandemia, che per ovvi motivi è stata un periodo particolarmente duro per chi vive di musica, la piattaforma ha lanciato l’iniziativa, poi diventata un appuntamento fisso, dei Bandcamp Fridays, per cui in un venerdì al mese rinuncia al suo fee permettendo agli artisti un guadagno del 100%. Esempio macroscopico, ma non unico, di una certa tendenza “sociale” del brand, distintosi anche per l’appoggio al movimento Black Lives Matter.

Condivisione al centro

La diversità di Bandcamp non ha solo a che fare con questioni economiche. Il sistema decisamente agile di meccanismi social su cui è sviluppata favorisce infatti la condivisione, il rapporto diretto tra chi suona e chi ascolta, la scoperta di musica e artisti di ogni parte del mondo altrimenti difficili da scovare (questo grazie anche al team editoriale di ottimo livello che pubblica il bollettino/rivista Bandcamp Daily). Tutto ciò l’ha resa una sorta di oasi protetta per la comunità underground, un ecosistema aperto nel quale chi vi partecipa investe molto in termini di passione e identificazione. Basti pensare al fatto che metà delle vendite su Bandcamp, che di fatto rimane uno store on line, è relativa al download legale, abitudine di acquisto sempre più rara e quasi contro-intuitiva in tempi di streaming gratuito. La dimostrazione che esiste una fetta consistente di pubblico per il quale possedere – in qualunque formato- la musica dei propri artisti preferiti è prima di tutto un modo per supportarli.

Tutto troppo bello, equo e progressista per poter durare? A guardare i recenti sviluppi che riguardano Bandcamp parrebbe di sì. Il primo segnale di allarme è scattato all’inizio del 2022, quando i fondatori hanno venduto la loro creatura a Epic Games, azienda di sviluppo software e videogiochi (tra cui il fortunatissimo Fortnite). I dubbi su come un marchio operante in un settore così distante da quello della musica indipendente potesse mantenere la mission di Bandcamp sono stati confermati dalla ulteriore cessione, nel settembre del 2023, a Songtradr, azienda B2B attiva nel mercato delle licenze musicali, con conseguente corollario di licenziamenti a tappeto (metà dello staff) e sinistri annunci di “ri-aggiustamenti per risanare e stabilizzare l’attività del marchio”. Cose che capitano spesso in occasione di merging e acquisizioni, ma in questo caso è fin troppo evidente la differenza di impostazione tra Bandcamp com’è stata fino ad ora (un servizio totalmente business-to-consumer) e come probabilmente sarà una volta “messa a posto” da una holding che ha come priorità il rapporto con altri brand e il fatturato che si può trarre con la vendita dei diritti sulle canzoni. Detto in modo più semplice e un po’ tranchant: per Bandcamp la musica è un fine in sé, per i suoi nuovi proprietari un mezzo. La “commercializzazione” di Bandcamp potrebbe seguire le stesse linee di quella alla quale ormai ci stiamo abituando riguardo i social media e persino un tool indispensabile come Google.

Nuovi protagonisti cercasi

Una eventuale implosione della piattaforma, ma anche un suo ridimensionamento in un’ottica di business molto più stringente, avrebbe conseguenze catastrofiche sul mondo della musica indipendente. Gli artisti perderebbero non solo una fonte costante (e dignitosa) di ricavi, in questo momento forse l’unica insieme all’attività dal vivo, ma anche la loro rete di fan e le mailing list. Le opportunità di guadagno con il download svanirebbero, spingendo a forza gli utenti verso lo streaming di Spotify, Tidal, Apple e così via. Dal punto di vista degli appassionati, sparirebbe, oltre alle collezioni di mp3 accumulate nel tempo, uno dei canali migliori per scoprire nuovi suoni al di fuori dei radar e alternativi al maistream premiato dagli algoritmi. Insomma, per chi ha ancora a cuore un certo modo di fruire e distribuire una forma d’arte come la musica, sarebbe un disastro totale.  Su Internet qualcuno, con intenti un po’ seri e un po’ no, ha addirittura lanciato lo slogan “nazionalizzare Bandcamp!”, dove la “nazione” è quella dei fan e degli ascoltatori. Dall’altro lato c’è anche chi sostiene che, visto il ruolo centrale di Bandcamp nell’universo indie contemporaneo, sia “too big to fail”, un po’ come certe economie in crisi alle quali si condonano i debiti. E proprio qui, forse, è possibile intravedere una possibile alternativa. Con tutti i suoi indiscutibili meriti, Bandcamp ha di fatto monopolizzato la sua fetta di mercato. C’è quindi la necessità di nuovi protagonisti, nuove piattaforme e nuove idee per preservare i valori (rispetto dei musicisti, trasparenza delle transazioni, capacità di creare interazione e in definitiva l’amore sincero per la musica) che la stessa Bandcamp ha difeso in questi anni. E quindi vale la pena riciclare, per un brand che a modo suo è stato rivoluzionario, un vecchio slogan rivoluzionario: “creare due, tre, molte Bandcamp”.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​