L’onda coreana del K-pop

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L’onda coreana del K-pop

Lo stile Corea ha ormai invaso cinema e serie tv, tecnologia, cosmesi e moda. E sta cambiando i gusti occidentali anche in fatto di musica. Quando nasce e quali sono i meccanismi che lo hanno reso così incredibilmente pervasivo e di successo?

Sulla cultura popolare di questo inizio di millennio si è abbattuta un’onda gigantesca proveniente dall’Oriente, uno tsunami fortunatamente benigno ma nondimeno, in termini di impatto sull’industria del divertimento e sui gusti di giovani e giovanissimi, con gli effetti di un vero e proprio cataclisma. Parliamo della K-Wave, dove K sta per “Korea”. Quella del Sud, ovviamente. Dal cinema alle serie Tv, con film da Oscar come Parasite a fenomeni cult come Squid Game, dalla cucina all’industria fashion, dalla tecnologia alla cosmesi per arrivare fino ai regimi dietetici più all’avanguardia, il paese asiatico detta legge e impone mode che si diffondono anche nell’emisfero occidentale. Una su tutte, il vero motore e cuore pulsante del rinascimento della “swingin’ Seoul”: l’amatissimo e famigerato K-pop.

Vale a dire quella schiera apparentemente infinita e intercambiabile di cantanti, band, “teen idol” e ballerini che da più di quindici anni sta polverizzando ogni record possibile, dallo streaming alle vendite dei cd (pressoché unico genere musicale nel quale i fan ancora comprano il supporto fisico, anche se quasi sempre come oggetto di merchandising più che come materiale di ascolto) passando per il numero di spettatori ai concerti.  A proposito di concerti: nel giugno del 2020, in pieno lockdown e con l’industria musicale in ginocchio, i BTS – il gruppo K-pop probabilmente più famoso di tutti i tempi, i cui membri sono attualmente in stand by a causa del servizio militare – tennero un concerto on line seguito da 750.000 persone collegate da più di 100 paesi, primato che difficilmente verrà mai eguagliato (anche perché, grazie a dio, i concerti on line hanno perso interesse con la fine della pandemia).

Una bandiera nazionale

Ci sono altri due eventi simbolici che testimoniano lo status del K-pop, ormai diventato uno degli asset principali del bilancio statale coreano (si è calcolato che il suo impatto sul PIL del paese va dai tre ai cinque miliardi di dollari, cifra da raddoppiare se si considera l’indotto totale), con i soliti BTS protagonisti di entrambi. In un caso sono stati ricevuti alla Casa Bianca da Joe Biden, nell’altro – insieme ad altri idoli della gioventù sud-coreana e non solo come Exo, Twice, Red Velvet – hanno “sonorizzato” la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi invernali di Pyeongchang del 2018. Insomma: per la Corea del Sud di oggi, il K-pop è qualcosa di più di un prodotto vincente nell’ambito dell’entertainment. È una bandiera nazionale alternativa, con ricadute epocali dal punto di vista culturale, sociale, economico e persino politico.

Ma che cos’è, nello specifico, il K-Pop? Quando nasce, quali sono i meccanismi che lo hanno reso così incredibilmente pervasivo e di successo? Superficialmente, può ricordare il fenomeno delle boy (e girl) band, una tradizione dell’industria dello spettacolo occidentale che parte da esempi nobili come i Monkees e certi vocal-group femminili della Motown negli anni ’60 per arrivare a nomi famosissimi degli ultimi decenni come NSYNC, New Kids on the Block, Spice Girls, Backstreet Boys, One Direction e così via. Il fatto è che il vecchio modello delle boyband e dei gruppi prefabbricati qui va elevato all’ennesima potenza. C’è persino qualcosa di inquietante, per non dire distopico, nella quantità e nel ricambio continuo dei protagonisti, così come nel processo che li rende tutti matematicamente delle star globali. Ragazzi e ragazze appena usciti dall’adolescenza (ma in molti casi ancora da entrarvi) tutti puliti, colorati, bellissimi e romantici. Musicalmente si tratta nella maggior parte dei casi di innocue canzoncine che mescolano pop mainstream, rap, trap, elettronica leggera con testi che parlano – spesso in lingue diverse, dal coreano all’inglese passando per il mandarino, per adattare il prodotto ai vari mercati – di tematiche per l’appunto adolescenziali (il rapporto con i grandi, i piccoli patemi amorosi, la difficoltà di sostenere lo stress che la competitività esasperata della società contemporanea, e in particolare quella coreana, impone). Nulla di particolarmente sperimentale o innovativo. Pop, appunto, nella sua accezione più semplice e codificata.

La centralità del visual

A fare la differenza è la parte visual. La vera testa d’ariete del K-pop, infatti, sono i video, quasi sempre imperniati su coreografie e balli di una perfezione e di una sincronia al limite dell’umano. Gioiosi, kitsch, ottimisti, irresistibilmente “irreali”. Non poteva che essere così per un genere musicale nato e sviluppatosi in simbiosi prima con il mezzo televisivo, soprattutto nell’ambito dei talent show popolarissimo in Corea fin dagli anni 80, e poi inevitabilmente sulle piattaforme video on line e sui social come YouTube e TikTok. Il punto di svolta, quello che fece capire definitivamente ai magnati del K-pop quali praterie metteva a disposizione Internet, fu il celeberrimo Gangnam Style di Psy nel 2012, “canzone” e relativo balletto che tutti ricordano e che spiegò al mondo il concetto di “viralità”: nel giro di un’estate sfondò il muro del miliardo di visualizzazioni su YT andando in testa alle classifiche in quaranta paesi diversi. L’operazione, paradossalmente, nasceva con intenti quasi parodistici, e il suo autore era sicuramente poco rappresentativo, in fatto di look, del modello K-pop, ma fu proprio quello a mettere sulla mappa anche occidentale un fenomeno che già da più di quindici anni spopolava in Oriente.

Dietro al K-pop e ai suoi numeri da record c’è una industria apparentemente ristretta (a dominare il mercato sono quattro-cinque realtà, ibridi tra etichette discografiche, agenzie di casting/management e vere e proprie “università del K-pop”) ma rodata con una precisione e spesso una spietatezza tutte orientali. Il processo di formazione degli idoli K-pop ricorda più la coltura in vitro, l’addestramento militare e le catene di montaggio della Hyundai che la classica attività di scouting e marketing delle case discografiche di un tempo. Cantanti e ballerini vengono selezionati in età pre-puberale – attraverso il consueto meccanismo di audizioni a cui partecipano svariate migliaia di persone – e letteralmente “plasmati” nel corso di anni prima di essere lanciati sul mercato. A ragazzi e ragazze viene insegnato non solo come cantare e ballare – in un regime di disciplina ferrea per cui viene spontaneo il parallelo con gli atleti di stato della DDR pre-1989 – ma anche come muoversi, parlare, comportarsi, organizzare la propria vita privata, interagire con i fan. L’ultima, soprattutto, è una caratteristica fondamentale in epoca di rapporto orizzontale con il pubblico e in un contesto di devozione totale, quasi religiosa, come quello che unisce fan e artisti nel K-pop.

I “dungeon” nei quali i K-poppers vengono svezzati nascondono quindi, come è facilmente intuibile, diverse zone oscure: pressione psicologica per molti insostenibile, contratti al limite dello schiavistico, in alcuni casi certificati anche comportamenti sessualmente predatori a danni di giovanissimi con il miraggio della stardom. Una “dark side” che rappresenta l’altra faccia di un universo pop talmente allegro, colorato, armonioso e ottimista da sembrare generato da una intelligenza artificiale. In effetti, è probabile che sarà quello il prossimo step per l’inarrestabile macchina del K-pop.

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​