Invenzione auto-tune: come un effetto ha cambiato la musica pop

Nel 1997 nasceva Auto‑Tune, un software che ha rivoluzionato per sempre il modo di fare (e ascoltare) musica. Nato per sistemare al volo le stonature, è diventato in poco tempo
Lo stile Corea ha ormai invaso cinema e serie tv, tecnologia, cosmesi e moda. E sta cambiando i gusti occidentali anche in fatto di musica. Quando nasce e quali sono i meccanismi che lo hanno reso così incredibilmente pervasivo e di successo?
Sulla cultura popolare di questo inizio di millennio si è abbattuta un’onda gigantesca proveniente dall’Oriente, uno tsunami fortunatamente benigno ma nondimeno, in termini di impatto sull’industria del divertimento e sui gusti di giovani e giovanissimi, con gli effetti di un vero e proprio cataclisma. Parliamo della K-Wave, dove K sta per “Korea”. Quella del Sud, ovviamente. Dal cinema alle serie Tv, con film da Oscar come Parasite a fenomeni cult come Squid Game, dalla cucina all’industria fashion, dalla tecnologia alla cosmesi per arrivare fino ai regimi dietetici più all’avanguardia, il paese asiatico detta legge e impone mode che si diffondono anche nell’emisfero occidentale. Una su tutte, il vero motore e cuore pulsante del rinascimento della “swingin’ Seoul”: l’amatissimo e famigerato K-pop.
Vale a dire quella schiera apparentemente infinita e intercambiabile di cantanti, band, “teen idol” e ballerini che da più di quindici anni sta polverizzando ogni record possibile, dallo streaming alle vendite dei cd (pressoché unico genere musicale nel quale i fan ancora comprano il supporto fisico, anche se quasi sempre come oggetto di merchandising più che come materiale di ascolto) passando per il numero di spettatori ai concerti. A proposito di concerti: nel giugno del 2020, in pieno lockdown e con l’industria musicale in ginocchio, i BTS – il gruppo K-pop probabilmente più famoso di tutti i tempi, i cui membri sono attualmente in stand by a causa del servizio militare – tennero un concerto on line seguito da 750.000 persone collegate da più di 100 paesi, primato che difficilmente verrà mai eguagliato (anche perché, grazie a dio, i concerti on line hanno perso interesse con la fine della pandemia).
Ci sono altri due eventi simbolici che testimoniano lo status del K-pop, ormai diventato uno degli asset principali del bilancio statale coreano (si è calcolato che il suo impatto sul PIL del paese va dai tre ai cinque miliardi di dollari, cifra da raddoppiare se si considera l’indotto totale), con i soliti BTS protagonisti di entrambi. In un caso sono stati ricevuti alla Casa Bianca da Joe Biden, nell’altro – insieme ad altri idoli della gioventù sud-coreana e non solo come Exo, Twice, Red Velvet – hanno “sonorizzato” la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi invernali di Pyeongchang del 2018. Insomma: per la Corea del Sud di oggi, il K-pop è qualcosa di più di un prodotto vincente nell’ambito dell’entertainment. È una bandiera nazionale alternativa, con ricadute epocali dal punto di vista culturale, sociale, economico e persino politico.
Ma che cos’è, nello specifico, il K-Pop? Quando nasce, quali sono i meccanismi che lo hanno reso così incredibilmente pervasivo e di successo? Superficialmente, può ricordare il fenomeno delle boy (e girl) band, una tradizione dell’industria dello spettacolo occidentale che parte da esempi nobili come i Monkees e certi vocal-group femminili della Motown negli anni ’60 per arrivare a nomi famosissimi degli ultimi decenni come NSYNC, New Kids on the Block, Spice Girls, Backstreet Boys, One Direction e così via. Il fatto è che il vecchio modello delle boyband e dei gruppi prefabbricati qui va elevato all’ennesima potenza. C’è persino qualcosa di inquietante, per non dire distopico, nella quantità e nel ricambio continuo dei protagonisti, così come nel processo che li rende tutti matematicamente delle star globali. Ragazzi e ragazze appena usciti dall’adolescenza (ma in molti casi ancora da entrarvi) tutti puliti, colorati, bellissimi e romantici. Musicalmente si tratta nella maggior parte dei casi di innocue canzoncine che mescolano pop mainstream, rap, trap, elettronica leggera con testi che parlano – spesso in lingue diverse, dal coreano all’inglese passando per il mandarino, per adattare il prodotto ai vari mercati – di tematiche per l’appunto adolescenziali (il rapporto con i grandi, i piccoli patemi amorosi, la difficoltà di sostenere lo stress che la competitività esasperata della società contemporanea, e in particolare quella coreana, impone). Nulla di particolarmente sperimentale o innovativo. Pop, appunto, nella sua accezione più semplice e codificata.
A fare la differenza è la parte visual. La vera testa d’ariete del K-pop, infatti, sono i video, quasi sempre imperniati su coreografie e balli di una perfezione e di una sincronia al limite dell’umano. Gioiosi, kitsch, ottimisti, irresistibilmente “irreali”. Non poteva che essere così per un genere musicale nato e sviluppatosi in simbiosi prima con il mezzo televisivo, soprattutto nell’ambito dei talent show popolarissimo in Corea fin dagli anni 80, e poi inevitabilmente sulle piattaforme video on line e sui social come YouTube e TikTok. Il punto di svolta, quello che fece capire definitivamente ai magnati del K-pop quali praterie metteva a disposizione Internet, fu il celeberrimo Gangnam Style di Psy nel 2012, “canzone” e relativo balletto che tutti ricordano e che spiegò al mondo il concetto di “viralità”: nel giro di un’estate sfondò il muro del miliardo di visualizzazioni su YT andando in testa alle classifiche in quaranta paesi diversi. L’operazione, paradossalmente, nasceva con intenti quasi parodistici, e il suo autore era sicuramente poco rappresentativo, in fatto di look, del modello K-pop, ma fu proprio quello a mettere sulla mappa anche occidentale un fenomeno che già da più di quindici anni spopolava in Oriente.
Dietro al K-pop e ai suoi numeri da record c’è una industria apparentemente ristretta (a dominare il mercato sono quattro-cinque realtà, ibridi tra etichette discografiche, agenzie di casting/management e vere e proprie “università del K-pop”) ma rodata con una precisione e spesso una spietatezza tutte orientali. Il processo di formazione degli idoli K-pop ricorda più la coltura in vitro, l’addestramento militare e le catene di montaggio della Hyundai che la classica attività di scouting e marketing delle case discografiche di un tempo. Cantanti e ballerini vengono selezionati in età pre-puberale – attraverso il consueto meccanismo di audizioni a cui partecipano svariate migliaia di persone – e letteralmente “plasmati” nel corso di anni prima di essere lanciati sul mercato. A ragazzi e ragazze viene insegnato non solo come cantare e ballare – in un regime di disciplina ferrea per cui viene spontaneo il parallelo con gli atleti di stato della DDR pre-1989 – ma anche come muoversi, parlare, comportarsi, organizzare la propria vita privata, interagire con i fan. L’ultima, soprattutto, è una caratteristica fondamentale in epoca di rapporto orizzontale con il pubblico e in un contesto di devozione totale, quasi religiosa, come quello che unisce fan e artisti nel K-pop.
I “dungeon” nei quali i K-poppers vengono svezzati nascondono quindi, come è facilmente intuibile, diverse zone oscure: pressione psicologica per molti insostenibile, contratti al limite dello schiavistico, in alcuni casi certificati anche comportamenti sessualmente predatori a danni di giovanissimi con il miraggio della stardom. Una “dark side” che rappresenta l’altra faccia di un universo pop talmente allegro, colorato, armonioso e ottimista da sembrare generato da una intelligenza artificiale. In effetti, è probabile che sarà quello il prossimo step per l’inarrestabile macchina del K-pop.