Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Quattro anni dopo la discesa in campo di Greta Thunberg a favore di Biden contro Trump, la sfida per la Casa Bianca si ripete. Come il cambiamento climatico incide nelle contese elettorali.
La contesa fra Biden e Trump per entrare alla Casa Bianca quattro anni fa, fu uno dei primissimi casi in cui Greta Thunberg si espose politicamente in modo netto, affermando che nella prospettiva di un’attivista per il clima come lei non c’era dubbio che il primo fosse preferibile al secondo. Un endorsement forse scontato, visto che Trump aveva ripetutamente definito il cambiamento climatico “a hoax”, una bufala. Eppure, fu un episodio significativo perché certificava che il clima era entrato di diritto nel confronto elettorale. E ai più alti livelli.
Sempre più spesso nelle tornate elettorali, infatti, c’è chi esorta a vagliare candidati e programmi sulla base prima di tutto di ciò che propongono nella lotta alla crisi climatica. In altre parole, a “votare per clima”, prim’ancora che per colori e schieramenti politici. Anche se ovviamente fra le due cose c’è relazione.
Il fenomeno può essere interpretato in vario modo. Lo si può intendere come l’ennesimo segnale dell’urgenza di porre in essere azioni efficaci contro quello che il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, chiama da tempo “collasso climatico”. O come un chiaro sintomo che le preoccupazioni sul clima sono crescenti e pervasive pressoché a ogni latitudine. O ancora come una prova della crescita dei cosiddetti “climate voters”, cioè appunto degli elettori che nell’esercizio del proprio diritto politico fondamentale, cioè appunto il voto, mettono al centro le questioni legate alla crisi climatica. Un segmento del corpo elettorale prevedibilmente destinato a crescere in futuro con l’aggravarsi della crisi climatica.
Quale che sia l’interpretazione, è un fatto che si sono moltiplicate le voci ma soprattutto le iniziative che invitano a “votare per il clima” e così pure gli strumenti a disposizione di chi vuol raccogliere tale invito. In vista delle elezioni presidenziali di inizio novembre, negli Stati Uniti molte organizzazioni religiose si sono mosse, oltre che come loro abitudine per garantire la più alta partecipazione possibile al voto, per sensibilizzare gli elettori sui temi del clima. Lo ha fatto ad esempio Greenfaith Usa, che da più di trent’anni mobilita istituzioni e comunità religiose su questioni di giustizia climatica. “Vote! For Our Sacred Earth” (Vota per la nostra Sacra Terra) è il nome della campagna che l’organizzazione ha promosso sollecitando gli elettori su tre questioni: riflettere sull’importanza che la propria fede attribuisce alla protezione del pianeta; informarsi sulla posizione di candidati e partiti in merito a questi temi; votare in modo consapevole, facendosi guidare da quei valori. Un altro esempio è quello di Interfaith Power and Light, la cui missione è mobilitare fedeli e comunità religiose su iniziative per il clima e la custodia del pianeta: mette a disposizione unaguida per gli elettori (“Guida alla riflessione per l’elettore di fede”) nella quale i temi ambientali e climatici hanno particolare evidenza.
Per restare negli States, interessante anche l’esperimento lanciato sempre in vista delle prossime elezioni presidenziali dalla quotata newsletter Distilled, focalizzata sulle politiche sul clima: rivolgendosi ai suoi 14mila lettori, per chi fossero intenzionati a votare cittadini fruitori di una newsletter di quel genere, riferendosi ai quali parlava esplicitamente di “climate voter”. Interessanti, sebbene dichiaratamente privi di pretese statistiche, anche i risultati emersi dal sondaggio: maggioranza bulgara, superiore al 90%, per Kamala Harris; solo l’1% per Trump.
Spostandoci dall’altra parte dell’Atlantico e precisamente nel Regno Unito, fra le iniziative più interessanti troviamo quella di Vote for Climate, che guarda sia alle elezioni politiche, sia a quelle amministrative. A coloro che intendono unirsi alla campagna, vengono forniti due tipi di supporti: l’analisi dei manifesti politici dei vari partiti, per identificare quelli che, se effettivamente rispettati durante il mandato elettorale, includono le migliori politiche ambientali in particolare per quanto riguarda la riduzione delle emissioni di gas serra; e la comunicazione ai partiti dei dati di adesione alla campagna e degli orientamenti di voto che ne sono emersi (quanti “climate voters”, cioè, si sono impegnati a votare per i partiti i cui manifesti sono stati identificati come i migliori per il clima), con l’obiettivo di fare pressione per spingerli a promuovere le politiche climatiche più ambiziose. In parte simile a questa, almeno negli obiettivi di fondo, l’iniziativa “Project Climate Vote” – che non dava però indicazioni di voto – promossa da Greenpeace Uk in occasione delle ultime elezioni generali britanniche, che ha cercato di reclutare il numero più ampio possibile di climate voters. Anche in questo caso, in collaborazione con Friends of the Earth Uk, era stato stilato un ranking dei manifesti politici più “verdi”, con l’indicazione dei rispettivi punti di forza e di debolezza.
Ovviamente di climate voters si parla anche in Italia. In vista delle ultime elezioni europee, l’associazione Italian Climate Network, insieme al blog scientifico Climalteranti, aveva chiesto a venti scienziati ed esperti di politiche sul clima e l’energia di stilare un vero e proprio Indice di impegno climatico analizzando i programmi elettorali. E valutando quanti, quali e quanto ambiziosi erano gli impegni per il clima (uno riguardava esplicitamente la fuoriuscita dai fossili) definiti in tali programmi. L’autorevole sito Carbonbrief aveva realizzato uno studio simile guardando agli impegni presi prima delle elezioni dai principali gruppi del Parlamento Ue.
Del resto, ormai da tempo i sondaggi parlano chiaro: i cittadini vogliono che i governi facciano di più sul clima. Secondo un sondaggio dell’Università di Yale, sono oltre un terzo gli elettori a stelle e strisce che si possono considerare “pro-climate”, che cioè ritengono molto importante il tema del riscaldamento globale (Guterres direbbe “global boiling”, ebollizione globale) e preferiscono candidati che supportano l’azione per il clima. A dirlo con ancora più forza è stato uno dei sondaggi più vasti mai realizzati, il People’s Climate Vote 2024 promosso da UNDP (il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite), che ha interessato oltre 73mila persona in 77 Paesi del mondo. I risultati sono inequivocabili: più dell’80% della popolazione globale chiede ai governi di intraprendere azioni più incisive contro la crisi climatica. Il 72% vuole che la transizione dai combustibili fossili alle energie pulite sia attuata rapidamente. E il 69% afferma che la crisi climatica sta avendo un impatto sulle principali scelte della propria vita, come la scelta del luogo in cui vivere o in cui lavorare.
Tornando nel Vecchio continente e guardando al Parlamento Ue uscito dalle urne a giugno, non si può obiettivamente dire che gli appelli a votare per il clima abbiano prodotto risultati in grado di cambiare gli equilibri. Anzi, c’è chi addirittura teme che l’attuale legislatura europea possa riservare amare sorprese, per non dire chiari passi indietro, nell’azione di contrasto alla crisi climatica. Il tempo dirà. Quanto al prossimo inquilino dello studio ovale che sta per essere eletto, chissà che le ultime devastanti, drammatiche inondazioni provocate a fine settembre dal passaggio dell’uragano Helene nel Sud-Est degli Stati Uniti non abbiano convinto anche i più recalcitranti a riconoscerlo: l’ora di “votare per il clima” è adesso.