Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Prigionieri dell’urgenza del momento, davvero non sembriamo capaci di pensare su un orizzonte più vasto e di tracciare i nessi che risolvono i problemi alla radice.
Sui media una notizia oscura l’altra, come se non avessero nulla da spartire: poco dopo l’avvio delle ostilità in Ucraina, il 28 febbraio l’IPCC – il panel di scienziati dell’ONU che certifica lo stato del clima – ha pubblicato il suo ennesimo e allarmante rapporto sugli impatti dei cambiamenti climatici e su come affrontarli, dal titolo Cambiamenti climatici 2022: impatti, adattamento, vulnerabilità. Senza altre notizie più scottanti avrebbe campeggiato sulla stampa, e invece è passato un po’ in sordina perché i fari sono puntati su qualcosa di diverso, la guerra! Ma davvero diverso? La nostra casa in fiamme, l’ambiente che va a rotoli, sono argomenti senza nesso?
Un collegamento c’è – più nelle soluzioni che nelle cause – ed è anche stato intuito; ma senza visione strategica, reagendo alla contingenza del momento. «Dobbiamo liberarci ealla dipendenza energetica dalla Russia!» si è constatato… e cosí l’ambiente ha fatto capolino. Ma guarda un po’ – si è notato – le energie rinnovabili ben sviluppate darebbero una buona mano ad affrancarci e, grasso che cola, aiutano anche sul fronte climatico. Ma forse è piú pratico il carbone?
Cosí non andiamo lontano. Dobbiamo allargare lo sguardo, oltre il pur drammatico episodio che affrontiamo in questi giorni. E riscoprire perché, alla radice, un pianeta che rispetta l’ambiente è anche un mondo dove non ci sono ragioni di conflitto, ove né la NATO né la Russia, né altri si percepirebbero come reciproche minacce.
La delegittimazione del conflitto che deriva dal rispetto dell’ambiente non ha nulla di ideologico; è un’implicazione quasi banale della caratteristica principale della nostra biosfera: è giusta, intrinsecamente giusta. Con qualche differenza di concentrazione geografica delle diverse risorse – che fonda l’utilità dei contatti, degli scambi e dei confronti costruttivi – ma la natura ha ripartito le sue ricchezze in generale in maniera equa. Chi non ha la foresta, ha il mare; chi non ha le mucche ha i cammelli e via dicendo, e su queste eque differenze si è sviluppata la ricchezza della diversità. Invece, pochi hanno il petrolio, ancor di meno hanno l’uranio: risorse naturali, è vero, ma non a caso nascoste sotto terra. Se guardiamo piuttosto alle risorse che la natura ci offre in maniera più diretta, immediata, rinnovabile, succede che chi non ha il sole, ha il vento; e se non ha nessuno dei due avrà le onde o i fiumi in pendenza.
Cogliamo l’occasione: oltre il dramma del momento, per l’energia, per il cibo, per la manifattura, per la cultura… per tutto. Valorizzare il potenziale naturale spontaneo di ciascun territorio ci mette tutti su un piede di eguaglianza e dipendenza costruttiva, e quindi costruisce la pace. E’ questa la notizia: l’ultimo rapporto dell’IPCC va oltre la semplice certificazione scientifica dei dati e gli scienziati hanno superato antiche timidezze; si spingono fino a dare consigli. Tanti consigli che poi – vale la pena leggere almeno la sintesi del rapporto – sono uno solo: salviamo gli ecosistemi e accorgiamoci del loro valore, anche economico. Per resistere ed adattarci a un clima che cambia, ovvio. Ma anche perché a farlo si costruisce un mondo in cui gli eserciti – visto che ancora non l’abbiamo capito – ovviamente non servono più.