Negoziato sul clima: ripartire dallo stallo di Madrid

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Negoziato sul clima: ripartire dallo stallo di Madrid

La COP25 non ha portato le risposte attese. L’architettura dell’Accordo di Parigi tiene ma serve un passo in più verso la decarbonizzazione nel 2020. Il ruolo dell’Italia.

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La COP25 non ha portato le risposte attese. L’architettura dell’Accordo di Parigi tiene ma serve un passo in più verso la decarbonizzazione nel 2020. Il ruolo dell’Italia.

La COP25 è stata un moderato fallimento. Si preserva l’architettura dell’Accordo di Parigi e si registra la volontà delle parti di aumentare l’ambizione per il 2020, quando i 196 stati dovranno portare al negoziato ONU i nuovi piani nazionali di decarbonizzazione. Tuttavia, nonostante 60 ore addizionali di negoziati si è fallito ad approvare l’elemento centrale e più concreto del negoziato, la finanza climatica. Si tratta del cosiddetto Articolo 6, l’ultimo mancante nell’Accordo di Parigi. Avrebbe permesso di scambiare quote emissioni, comprandole da progetti di mitigazione in altre parti del mondo e vederle contabilizzate a suo nome. La Presidenza cilena, guidata da Carolina Schmidt, ha fallito anche nel trovare il compromesso su i meccanismi di trasparenza sul conteggio delle emissioni, rimandate al negoziato tecnico di Bonn di giugno, risorse economiche per l’adattamento e il Loss&Damage (l’assicurazione per i paesi più vulnerabili), e un framework temporale comune per paesi sviluppati e in via di sviluppo per l’aggiornamento degli NDC, i piani nazionali di riduzione delle emissioni. Rimangono nel testo i meccanismi di adattamento e la base del Loss&Damage, e l’approvazione del Gender Action Plan, per sostenere il ruolo delle donne nel processo internazionale di decarbonizzazione.

«Oggi, come paesi, siamo rimasti in debito con il pianeta», ha ammesso quasi in lacrime la presidente Carolina Schmidt, nello sterile linguaggio onusiano. «Gli accordi raggiunti dalle parti non sono sufficienti per affrontare la crisi dei cambiamenti climatici con urgenza». Si riparte con il summit intermedio di giugno a Bonn e con la preCOP di Milano a ottobre. «Ci sarà tanto lavoro da fare nel 2020 per Italia e UK,» ha commentato Laurence Tubiana, Ceo della European Climate Foundation e architetta dell’Accordo di Parigi. «L’Italia ha davanti a sè una grande responsabilità, deve superare eventuali pregiudiziali di alcuni Paesi che possono bloccare il percorso. L’ambizione è arrivare ad un accordo», spiega all’autore il ministro dell’ambiente Sergio Costa. «E per questo chiederò al governo, al ministro degli Esteri e al presidente del Consiglio uno sforzo più rigoroso nelle negoziazioni».

Gli ostacoli da superare

Gli ostacoli più grandi sono stati sul timeframe condiviso per le emissioni ma soprattutto sulla finanza climatica, elemento ostico date le grandi implicazioni economiche e finanziarie. Ci si è fermati subito sul punto 2, dove si disciplina la cooperazione bilaterale attraverso “internationally traded mitigation outcomes” (i cosiddetti ITMO), che potrebbero includere riduzioni delle emissioni misurate in tonnellate di COo chilowattora di elettricità rinnovabile realizzate tramite un meccanismo di scambio. Alcuni paesi, come il Brasile, hanno spinto per un sistema poco trasparente che potrebbe avere problemi di double accounting, dove le riduzioni vengono conteggiate sia per il paese finanziatore che per il beneficiario. Al punto 4 dell’art. 6 invece si è lavorato per creare un nuovo mercato internazionale del carbonio, basato sullo scambio dei tagli alle emissioni, creato dal settore pubblico o privato in qualsiasi parte del mondo. Difficile trovare la quadra giusta sulla trasparenza di questo meccanismo. Poi per entrambi i punti 2 e 4, e anche 8, è emersa la questione dei diritti umani. Con i Clean Development Mechanism presenti nell’Protocollo di Kyoto infatti si verificarono numerosi abusi, come ad esempio con la costruzione di dighe che hanno costretto al trasferimento forzato non compensato migliaia di persone. Ma numerosi stati si sono opposti a questa richiesta. Infine l’ultimo nodo gordiano è stato il tema del carry over, ovvero l’uso dei crediti di carbonio generati con il Protocollo di Kyoto, da impiegare nel nuovo regime post-2020 che avrebbe dovuto istituire l’art.6. Australia e stati BASIC hanno puntato i piedi, contribuendo ad un empasse sostanziale. Troppi elementi controversi, quindi tutto rimandato al SBSTA, il gruppo tecnico della COP che si riunisce a fine primavera nella sede UNFCCC.

Come si può sbloccare l’empasse

Il processo dunque si fa di nuovo geopolitico. Innanzitutto l’Europa deve subito avviare il processo di revisione degli attuali impegni di riduzione al 2030, cercando un accordo non oltre il Consiglio Europeo di giugno 2020. l’Italia, se non vuole rischiare una figura peggiore del Cile alla COP26, dovrà avere leadership sia in Europa che nel mondo, cercando di preparare il lavoro anche attraverso la diplomazia della Farnesina, specie in quegli stati dove ha buoni accordi bilaterali, come Cina, India e Giappone, in comune accordo con gli altri paesi europei. Gli sherpa Europei dovranno così arrivare al Vertice di alto livello Ue-Cina, in programma il prossimo settembre a Lipsia con una proposta congiunta per un accordo ambizioso in vista della COP26 di Glasgow. Sarà qua l’ultimo passo, insieme alla sconfitta di Trump, vera spina nel fianco con la sua folle decisione di uscire dall’Accordo di Parigi per ritrovare l’equilibrio multilaterale, reso complesso dall’onda sovranista climanegazionista. Nel caso vincesse un democratico alle elezioni presidenziali del 3 Novembre, gli Usa formalmente potrebbero cambiare rotta entro il giorno successivo, data in cui diventa effettivo l’abbandono americano dall’Accordo. Troppo a ridosso del negoziato COP26 a Glasgow che aprirà i battenti il 9 Novembre 2020. Non ci sarà il tempo per essere sicuri di avere consenso tra Usa (con un nuovo presidente o con il vecchio), i paesi BASIC, Cina su tutti, e l’Europa che deve mettere tutto il suo capitale politico di potenza mondiale per tenere in piedi l’Accordo. Se a COP25 era importante prendere decisioni collettive, alla prossima COP ogni stato dovrà mostrare autonomamente l’ambizione di agire a favore di una decarbonizzazione. L’Italia deve dare per una volta un esempio mondiale.

Foto: UNclimatechange

Emanuele Bompan, giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, innovazione, energia, mobilità sostenibile, green-economy, politica americana. È direttore della rivista Renewable Matter; collabora con testate come La Stampa, BioEcoGeo, Sole24Ore, Equilibri. Autore di numerosi libri, ha un dottorato in geografia e collabora con ministeri, fondazioni e think-tank. Offre consulenza a start-up green e incubatori specializzati in clean-tech. Ha vinto per quattro volte l'European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 75 paesi, sia come giornalista che come analista.​​