La sfida ambientale della Cina

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La sfida ambientale della Cina

Il governo cinese ha da tempo dichiarato guerra all'inquinamento, promuovendo la crescita di un'economia sostenibile e circolare. Questa sfida ambientale quali risultati ha portato?

Il governo cinese ha da tempo dichiarato guerra all’inquinamento, promuovendo la crescita di un’economia sostenibile e circolare. Questa sfida ambientale quali risultati ha portato?

La Cina è il maggiore produttore mondiale di beni industriali, con oltre un quarto del valore aggiunto totale della produzione mondiale nel 2016. Un primato che continuerà a consolidarsi negli anni a venire. Tuttavia “la fabbrica del mondo” sta avendo un impatto ambientale senza precedenti, con rischi ambientali potenziali che potrebbero arrestare lo sviluppo della società e dell’economia cinese, se non corretti in modo tempestivo.

Nel tentativo di affrontare queste sfide, il governo cinese ha da tempo dichiarato una “guerra all’inquinamento”, promuovendo la crescita di un’economia sostenibile e circolare. Per il presidente cinese Xi Jinping, «[in Cina] dovremmo perseguire l’armonia tra uomo e natura, esortando a mantenere l’equilibrio generale dell’ecologia terrestre, in modo che il cielo stellato, le montagne lussureggianti e la fragranza floreale siano preservati per le nostre generazioni future, permettendo lodo di godere della nostra prosperità materiale».

Secondo Xi il perseguimento dell’armonia, concetto centrale in Cina, si ottiene attraverso la duplice azione dello Stato e dei cittadini, quest’ultimi esortati a mantenere «uno stile di vita attento alla natura, basato su semplicità, moderazione, sostenibilità e basse emissioni di carbonio affinché l’idea della conservazione ecologica e ambientale sia la cultura principale della società». E basta andare su Weiboo o seguire le TV cinesi per trovare in continuazione programmi o pubblicità su comportamenti sostenibili ed ecologici, per capire che la missione moralizzatrice è già partita da tempo.

Altrettanto complessa è la strategia ambientale dello Stato che deve mantenere la forte crescita economica, riconvertendo rapidamente l’intero sistema di produzione industriale, agricolo e dei trasporti, sia in patria che nei costosissimi progetti di cooperazione (o neo-colonialismo) nel resto del mondo, a partire dall’iniziativa Belts&Roads.

Clima, auto, capitale naturale

Sulle emissioni di CO2 e altri gas climalteranti si gioca la partita più grande. Dal 2014 Pechino ha abbracciato apertamente la sfida globale della riduzione delle emissioni, accettando di lavorare per un accordo globale, raggiunto l’anno successivo a Parigi. «Pechino sa quanto è importante decarbonizzare l’economia per la propria stabilità e continuerà a cercare l’intesa con l’Europa per preservare l’Accordo di Parigi anche post 2020, quando entrerà in vigore a pieno regime», spiega Serena Giacomin di Italian Climate Network. L’obiettivo a medio termine per Pechino è di ridurre le emissioni di CO2 del 60/65% entro il 2030 rispetto alla baseline del 2005 (l’EU al momento ha come obiettivo il 50%) con l’obiettivo della neutralità carbonica al 2050. Per raggiungere questi obiettivi, Pechino ha ideato un mercato delle emissioni nazionale per il settore energetico del paese che sarà pienamente operativo entro il 2020. Il sistema incentiverà la riduzione delle emissioni consentendo alle imprese virtuose di vendere quote di emissione alle imprese carbon-intensive. Il prezzo per tonnellata di anidride carbonica è fissato a circa 6€ e aumenterà del 3% annuo fino al 2030. Pechino ha inoltre introdotto una politica di feed-in-tariff, garantendo ai fornitori di energia rinnovabile un prezzo minimo per incrementare i fondi investiti nel settore delle energie rinnovabili. Secondo il Rocky Mountain Institute il governo cinese ha la possibilità economica e tecnologica di raggiungere emissioni nette zero entro la metà del secolo. Il costo della transizione, sostiene il think-tank guidato da Amory Lovins, costerà alla Cina meno dello 0,6% del PIL.

Alcuni successi delle politiche green cinesi sono già misurabili. La Cina è riuscita a dissociare alcune delle sue pressioni ambientali (ovvero inquinanti atmosferici tradizionali come SOx e NOx) dalla crescita economica molto più rapidamente rispetto ai paesi OCSE e in una fase precedente dello sviluppo economico. Da quest’anno inoltre sarà pienamente funzionante un sistema nazionale verticale per il monitoraggio e la supervisione della qualità dell’ambiente, delle acque superficiali e del suolo. I piani segnano alcuni importanti sviluppi nella gestione delle informazioni ambientali. La responsabilità per il monitoraggio della qualità ambientale sarà centralizzata, passando a un modello di “chi valuta, monitora”. Sui trasporti, se sta aumentando notevolmente il traffico aereo e navale, molte città spingono su trasporti elettrici e sui mezzi pubblici. Attualmente ci sono oltre 25mila chilometri di linee ad alta velocità e i sistemi di metro si stanno espandendo in tutte le città con oltre cinque milioni di abitanti. Purtroppo però l’uso dell’auto sta rapidamente diventando uno status, con conseguenze devastanti sulla qualità dell’aria in molte città. Trovare la via verde del dragone non sarà affatto facile. Ma è innegabile la svolta intrapresa da Xi Jingping.

Economia circolare con caratteristiche cinesi

Se l’America di Trump ignora quasi completamente l’economia circolare, la Cina da oltre 15 anni sta lavorando per rendere circular il comparto industriale. Dal riciclo di RAEE a Shanghai, alle centrali di smaltimento di acque reflue e scarti alimentari di Quingdao, al parco industriale Teda di Tianjin, uno dei più grandi parchi industriali della nazione, dove si riciclano tutti gli scarti degli stabilimenti di tutta l’area, abbondano gli esempi virtuosi di questo nuovo modello di produzione industriale. La Cina circolare è già realtà. Una realtà che, certo, fa spesso a pugni con altri risvolti del complesso quadro cinese. Nel dicembre 2015, per esempio, la tecnologica Shenzhen è balzata all’onore delle cronache internazionali per una spaventosa catastrofe che ha distrutto decine di fabbriche e ucciso più di 70 lavoratori: travolti letteralmente da una valanga di rifiuti e detriti franati da una gigantesca discarica.

«Del resto, il concetto di ciclo è da sempre connaturato alla cultura essenzialmente taoista del Dragone. E il pragmatismo (per quanto spesso eticamente discutibile) che accompagna la via cinese al comunismo, almeno dai tempi di Deng Xiaoping, chiede ormai con una certa urgenza di abbracciare con piena convinzione il credo della Xúnhuán jīngjì, dell’economia del ciclo» spiega la giornalista Giorgia Marino, esperta di Cina. Il documento Circular Development Leading Action Plan del 2017 fissa degli obiettivi precisi e ambiziosi: un aumento del 15% al 2020 (rispetto ai livelli del 2015) del tasso di produttività delle risorse; un tasso di riciclo dei principali materiali di scarto pari al 54,6%; un tasso di riutilizzo dei rifiuti solidi industriali del 73%; e soprattutto l’avvio di una trasformazione circolare per il 75% dei parchi industriali di livello nazionale e per il 50% di quelli di livello provinciale. «È importante però aggiornare la legge del 2008, la Circular Economy Promotion Law, includendo una maggiore definizione di obiettivi concreti e target specifici per i singoli materiali», spiega Marino. Solo così la Cina potrà rimanere la fabbrica del mondo. 

Emanuele Bompan, giornalista ambientale e geografo. Si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, innovazione, energia, mobilità sostenibile, green-economy, politica americana. È direttore della rivista Renewable Matter; collabora con testate come La Stampa, BioEcoGeo, Sole24Ore, Equilibri. Autore di numerosi libri, ha un dottorato in geografia e collabora con ministeri, fondazioni e think-tank. Offre consulenza a start-up green e incubatori specializzati in clean-tech. Ha vinto per quattro volte l'European Journalism Center IDR Grant, una volta la Middlebury Environmental Journalism Fellowship ed è stato nominato Giornalista per la Terra 2015. Ha svolto reportage in 75 paesi, sia come giornalista che come analista.​​