Dalla guerra fredda alla guerra verde

Environment


Dalla guerra fredda alla guerra verde

La strada verso il cambiamento climatico non è un pranzo di gala. E sta portando la già viva competizione commerciale e militare tra USA e Cina, sul terreno del clean tech.

​​​​La promessa del risultato della guerra verde c’è. Presto o tardi vedremo prati verdi nelle aree industriali, aiuole a fianco di ogni tangenziale, auto elettriche ovunque, e tetti di case e capannoni tappezzati di orti o panelli solari. Ma per arrivarci bisognerà combattere. Il percorso verso la conversione green ha infatti un prezzo geopolitico che non possiamo ignorare.

Estinte alcune leadership che sembravano d’ostacolo, in superficie sembra esserci aria di cooperazione. Ma in profondità cosa c’è? Tolta la patina buonista di un mondo pronto a tingersi di verde, c’è una guerra verde ,cruda e spietata, in cui economia, produzione e finanza possono essere – e da sempre lo sono – strumenti con cui le potenze si sfidano per la loro sopravvivenza.
Con una novità: questa volta la sopravvivenza non riguarda il controllo di un arsenale atomico, ma l’ambiente,(appunto guerra verde ) .

Cleantech: la supremazia cinese

Il percorso verso la rivoluzione o transizione energetica è fatto di imprese che trasformano materie prime in prodotti semilavorati e finiti. Sono piantate per terra. Hanno un passaporto e sono parte del patrimonio dello stato che le ospita. E alcuni stati in particolare sono impegnati già da tempo a diventare l’ossatura della filiera della rivoluzione green.

Prendiamo il cleantech, quell’insieme di tecnologie utili a ridurre l’impatto ambientale dei processi produttivi e a rendere “puliti” quelli energetici. Da tempo, appunto, chi è protagonista assoluta in questa industria? La Cina.

Come elencato in uno studio recente di BloombergNEF, infatti, domina la produzione globale di batterie, moduli solari, catodi per batterie. E non solo. Nello specifico settore dell’energia solare governa la maggior parte della filiera, producendo polisilicio, elemento base delle celle fotovoltaiche, ma anche celle solari e moduli.

Questa primazia oggi si traduce in una fetta di mercato enorme

Tutto questo è frutto di scelte politiche scaltre. Gli investimenti statali nel settore e gli incentivi alle imprese sono infatti decisioni prese anni fa; fanno parte di una strategia consapevole, pensata quando l’urgenza ambientale ancora non era sentita così diffusamente.

Il risultato tangibile è ora la dipendenza dalla Cina di molti degli stati che usufruiscono di queste tecnologie, che promette anni di competizione più che di cooperazione. Quella che oggi sembra una strada felice e senza costi, si sta rivelando un confronto geopolitico costellato di dilemmi e contraddizioni.

Il più evidente e macroscopico vede la Cina, primo stato inquinatore al mondo, come primo fornitore globale degli strumenti e le tecnologie per rendere il mondo un posto più pulito. Almeno per un po’, quindi, compreremo tecnologie pulite da chi inquina di più.

Il secondo è che la produzione di tecnologie e semilavorati per il settore, compresa l’estrazione di materie prime come terre rare e minerali critici ad esso destinati, hanno costi ambientali molto alti. Per un po’, quindi, per pulire dovremo sporcare.

Il terzo è che la corsa all’accaparramento di queste risorse è piena di ostacoli, ed è un ulteriore elemento con cui gli stati possono esercitare il loro potere sugli altri; cosa già vista in anni di contese per gli idrocarburi.

Cleantech: la rincorsa Usa

Agli Stati Uniti è ora chiaro l’errore di aver subappaltato la produzione globale delle energie del futuro al “nuovo nemico” sul campo. Un nemico che detiene e produce anche la maggior parte delle terre rare fondamentali per la produzione dei magneti per i veicoli elettrici e le tecnologie pulite, come le turbine eoliche. Un nemico che negli anni della globalizzazione più sfavillante si presentava allettante perché offriva costi di produzione vantaggiosissimi.

È così che le subforniture asiatiche sono state il patto col diavolo di un occidente guidato dalla ricerca di “prezzi cinesi” e ottimi margini. Per questo va riconosciuto alla Cina il merito di aver capito quale posizione occupare nell’economia globale, come rendersi indispensabile rispondendo alla domanda “di cosa avrà bisogno il mondo, domani?”. Adesso tocca gli altri rincorrerla, con innovazioni e soluzioni alternative, entrambe molto costose.​

​Antonio Belloni è nato nel 1979. È Coordinatore del Centro Studi Imprese Territorio, consulente senior di direzione per Confartigianato Artser, e collabora con la casa editrice di saggistica Ayros. Scrive d'impresa e management su testate online e cartacee, ed ha pubblicato Esportare l'Italia. Virtù o necessità? (2012, Guerini Editori), Food Economy, l'Italia e le strade infinite del cibo tra società e consumi (2014, Marsilio) e Uberization, il potere globale della disintermediazione (2017, Egea).