Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Nel nostro mare la temperatura media rispetto all’era pre industriale è aumentata di 1,5 gradi e il riscaldamento procede del 20% più rapidamente rispetto alla media globale. Con quali conseguenze?
La cinghia di trasmissione fra le scoperte scientifiche e la consapevolezza del pubblico spesso si inceppa, per problemi di linguaggio e di diffusione. Tuttavia, certi allarmi non possono essere ignorati: uno studio appena pubblicato sulla rivista Advances in Atmospheric Sciences ammonisce sull’accelerazione del riscaldamento oceanico e fa quasi tenerezza osservare l’artificio retorico con cui gli scienziati hanno tentato di farsi capire da tutti: lo scorso anno è stato assorbito dai mari – hanno affermato – abbastanza calore extra da far bollire circa 1,3 miliardi di bollitori (bollitori a parte, lo strato superiore degli oceani fino a una profondità di 1,24 miglia – 2 chilometri – ha assorbito lo scorso anno 20 Zettajoule, cioè 20mila miliardi di miliardi di joule in più rispetto al 2019). Fuor di metafora, è una tragica conferma del rischio estremo che sembra vogliamo rimuovere dai nostri pensieri, e i ricercatori – gente generalmente pacata nel linguaggio – hanno affermato che l’aumento delle temperature rappresenta un “grave rischio” per l’umanità, che continua nonostante il calo delle emissioni legato al COVID lo scorso anno.
Il ruolo degli oceani
L’oceano funge da volano ritardante per il riscaldamento globale, assorbendo oltre il 90% del calore supplementare generato dall’effetto serra per poi rilasciarlo gradualmente nell’intero sistema. Non lo visualizziamo come una priorità perché siamo una specie da terre emerse. Ma il riscaldamento degli oceani porta catastrofi naturali sulla nostra terra ferma, in aumento come gli incendi che hanno infuriato in Australia e in Amazzonia nel 2020, legati alle temperature oceaniche più alte registrate in 65 anni, rilevate dal livello della superficie fino a una profondità di 1,24 miglia.
Data la vastità, possiamo immaginare quanta energia l’oceano può assorbire e contenere e quanto è grande l’impatto al loro esterno quando viene rilasciata successivamente lentamente: oceani più caldi rendono le tempeste più potenti, in particolare i tifoni e gli uragani, e un’atmosfera più calda promuove anche piogge più intense in tutte le tempeste, aumentando il rischio di inondazioni e, all’opposto, incendi estremi come quelli visti nel 2020. Dobbiamo quindi aspettarci impatti crescenti sulle nostre vite e soprattutto agire ora, poiché la risposta ritardata dell’oceano al riscaldamento globale significa che i cambiamenti dureranno per diversi decenni e andranno inasprendosi.
Ma in questo quadro globalmente preoccupante, il pericolo si concentra a casa nostra, come ben evidenziato anche dal recente libro L’equazione dei disastri (Codice edizioni) del fisico del clima CNR Antonello Pasini. Tra tutte le aree analizzate in dettaglio il Mediterraneo è il bacino che evidenzia il tasso di riscaldamento maggiore negli ultimi anni, confermando peraltro quanto già riscontrato nel Rapporto sullo Stato dell’Oceano del Servizio marino europeo Copernicus del 2016 e del 2018, proseguendo un processo iniziato una trentina di anni fa ma con un incremento più elevato rispetto alle altre aree oceaniche.
Tali risultati si intersecano – nei dati considerati e nelle allarmanti conclusioni – con quelli del recente Rapporto del MedECC, il network che riunisce gli esperti mediterranei sui cambiamenti climatici e ambientali, Risks associated to climate and environmental changes in the Mediterranean region. Esso considera la zona mediterranea nelle sue varie dimensioni ed evidenzia che – mentre le acque del nostro mare sono quelle che si scaldano più rapidamente – la regione nel suo complesso è la seconda al mondo per rapidità di progressione del riscaldamento. Nel Mediterraneo la temperatura media rispetto all’era pre industriale è infatti aumentata di 1,5 C e il riscaldamento procede del 20% più rapidamente rispetto alla media globale. Un dato, questo, che se non contrastato da interventi di mitigazione potrebbe portare alcune regioni a registrare aumenti fino a 2,2 C nel 2040, e 3,8 nel 2100, con conseguenze catastrofiche per una popolazione mediterranea nel frattempo cresciuta esponenzialmente.
Vi saranno conseguenze destabilizzanti. Si prevede, ad esempio, che il livello del nostro mare possa aumentare di 20 cm entro il 2050, che possono sembrare pochi ma salinizzerebbero il delta del Nilo, sconvolgendo la sussistenza di milioni di persone; oppure un incremento della popolazione esposta alla precarietà idrica fino a 250 milioni di persone, e il fatto che un mare più caldo fa da volano di lungo termine a un’atmosfera più calda significa che il problema ci accompagnerà a lungo e andrà aggravandosi anche nei più idilliaci e virtuosi scenari di contrasto alle emissioni di gas serra. Dobbiamo prepararci a queste e a molte altre conseguenze. Ma limitarsi a prendere le misure di tali impatti diretti vuol dire non comprendere che è in gioco una posta cruciale: l’identità e l’unità dell’Europa e una relazione costruttiva entro il più naturale ambito di internazionalizzazione dell’economia italiana, la sponda Sud e oltre essa l’Africa.
A guardare il planisfero ci si accorge che l’ idea di Europa – come continente a sé stante – rappresenta un’anomalia. Usando i criteri di delimitazione dei continenti applicati per tutti gli altri, noi non dovremmo esistere: siamo solo una piccola appendice dell’Asia. Eppure, continuiamo a sentirci un continente a parte, anzi forse – con quella presunzione che una volta si chiamava eurocentrismo – ci sentiamo Il continente, il “vecchio” continente! Cosa ci distingue? Una certa unità culturale, persino fisionomica, un senso di comunità nella diversità. Pochi si interrogano sulle radici di queste unicità che non si basano nell’ isolamento del proprio territorio, ma qualcuno l’ha fatto: a cominciare da Montesquieu che vedeva l’identità europea come un prodotto dell’eccezione climatica che ha benedetto l’Europa dalla fine dell’ultima glaciazione, circa 10.000 anni fa.
Se Montesquieu aveva ragione – e con criteri contemporanei possiamo confermare che aveva visto giusto – significa che il clima dell’Europa ha giocato un ruolo determinante nel forgiare la nostra identità e nel definire i nostri interessi. Lo stesso vale per la sponda Sud del mediterraneo che, con proprie marcate dinamiche identitarie è Africa senza realmente esserlo. Anche la sponda Sud del mediterraneo ha beneficiato di una sua favorevole eccezionalità climatica che ne ha contribuito a distinguerne l’identità dal resto dell’Africa. Queste due eccezioni favorevoli sono interconnesse dall’ azione stabilizzante del mare che condividiamo, e hanno creato le condizioni della rivoluzione agricola: la maggior strutturazione sociale da cui ha preso le mosse l’organizzazione umana in campagne coltivate e centri urbani che ancora è la nostra. Sta accadendo attorno al Mediterraneo – fra Europa, Anatolia, Fenicia, perché un clima stabile e prevedibile è essenziale per pianificare i raccolti. Senonché, questo clima sta cambiando. L’inerzia stabilizzante di un vasto bacino d’acqua come il Mediterraneo non funziona più se le sue acque immagazzinano e rilasciano nel sistema dosi crescenti di energia che si trasforma in caos. Non è solo una questione di venti e piogge e nemmeno dottamente antropologica: si tratta di economia, commercio, e geopolitica.
Le basi profonde dei nostri equilibri diventano instabili e si profila un inasprimento distruttivo della conflittualità se ci poniamo in crescente competizione di fronte alle nuove scarsità e incertezze. Ma se osserviamo tutto questo con gli occhi di quella scienza che tanto fatica a farsi ascoltare, con obbiettività, scopriamo che il clima che cambia ci obbliga a collaborare e può quindi essere trasformato in un’ inedita occasione di pace.