Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Dopo circa 20 anni di negoziati è stato raggiunto da una significativa maggioranza di Paesi membri delle Nazioni Unite un accordo per proteggere gli oceani e la biodiversità. Un passo storico, ecco perché.
Il 4 marzo 2023, gli Stati membri delle Nazioni Unite hanno stipulato il primo trattato internazionale sull’alto mare per la protezione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina delle acque internazionali. Questo rende possibile istituire su larga scala aree marine protette in alto mare (200 miglia nautiche pari a 370 chilometri dalla costa), necessarie anche per rispettare l’impegno mondiale assunto nel dicembre scorso dall’accordo sul quadro globale di Kunming-Montréal che ha l’obiettivo di proteggere almeno il 30% degli oceani entro il 2030.
L’alto mare ospita milioni di specie di cui il 10-15% sarebbero a rischio estinzione. Basterà questo trattato? Lo abbiamo sempre chiamato “diritto del mare”, ma finora questo corpo di norme internazionali al mare non dava quasi nulla: vi si regolava finora il nostro diritto di sfruttarlo fino al tracollo e l’unica dimensione giuridica riguardava la preoccupazione che non ci accapigliassimo troppo fra noi umani nella corsa al buffet gratuito. Come risultato di quel modo di vedere il diritto sul – e non del – mare, le Nazioni Unite, dopo ben sei anni di lavori difficili e un percorso tutto in salita per farle entrare in vigore nel 1994, erano riuscite a varare quattro convenzioni nel 1982: una serie di regole che si aggiungevano ad antiche e consuetudinarie norme di navigazione e convivenza, ma in cui il mare era solo un oggetto e mai un soggetto di diritti.
Ma qualcosa è successo: gli umani – gli stessi che avevano litigato per 30 anni sull’estensione di quello che è mio, quello che è tuo e quello che arraffa chi arriva per primo – improvvisamente hanno deciso che il mare è nostro, di tutti. Il 4 marzo di quest’anno abbiamo assistito all’inaudito: in un nuovo progetto di convenzione sull’alto mare adottato entro le medesime Nazioni Unite si parla di “patrimonio comune dell’umanità” per il cuore dei nostri oceani, lontano dalle coste.
Un passo nella giusta direzione ma solo una mezza novità: questo concetto era spuntato timidamente anche nelle vecchie convenzioni del 1982, riferendosi alle risorse minerarie sui fondali oceanici; ed era certo meglio di un è mio, è tuo, è del più grande e grosso. Ma era e rimane pur sempre un’idea di diritto sul mare, non del mare.
Intendiamoci: qualsiasi giurista mi sparerebbe a vista se affermassi che la nuova convenzione ONU istituisce “personalità giuridica e titolarità di diritti soggettivi” per i totani e i pesci palla. Ma per una volta inviterei tutti all’inumano sforzo di leggere un testo normativo anche se non farlo non comporta il rischio di una multa dell’Agenzia delle Entrate. Leggetelo e forse come me dentro di voi esclamerete “accidenti, allora è possibile!”. Fra le righe, ma si sente, abbiamo finalmente regole che affermano il diritto del mare a vivere, e non solo perché ci serve.
È un precedente enorme: forse apre la porta a un diritto delle foreste, non sulle foreste; delle paludi, dei mammiferi, degli insetti e; e forse prelude al loro diritto a un clima adatto alla loro – e alla nostra – sopravvivenza.