2030: come evitare la tempesta perfetta

Environment


2030: come evitare la tempesta perfetta

Dalla Cop 21 di Parigi a Cop 24 in Polonia sono trascorsi tre anni e i progressi per invertire i danni climatici sono insufficienti. Eppure, investire nel sostenibile conviene.

Dalla Cop 21 di Parigi a Cop 24 in Polonia sono trascorsi tre anni e i progressi per invertire i danni climatici sono insufficienti. Eppure, investire nel sostenibile conviene.

Non è una buona notizia anche se, come vedremo, possiamo trasformarla in una grande opportunità: molti centri di studio assai diversi fra di loro – think tank, centri di pianificazione strategica dei governi, università – applicando metodologie differenti e modelli tratti da varie discipline, convergono nel metterci in guardia su una scadenza planetaria, il 2030. Vi sono serie ragioni per ritenere che in quel periodo, se nulla cambia, varie linee di degrado ambientale e i loro impatti localizzati ora in vaste ma separate aree più fragili del pianeta possano saldarsi in un’unica grande dinamica di “destabilizzazione sistemica” su scala planetaria. In pratica, un pianeta dove non vorremmo vivere.

Ci sono evidenze secondo cui nei prossimi 40 anni serviranno 2 miliardi di nuovi posti di lavoro, ma contemporaneamente le riserve energetiche si andranno esaurendo, l’acqua diventerà un bene sempre più prezioso, il pianeta continuerà a riscaldarsi e sarà colpito sempre più spesso da grandi catastrofi naturali. Ricorrendo agli apporti di diverse discipline, dall’economia alla politica, emerge che nel 2030 i problemi che oggi cominciano a manifestarsi potrebbero combinarsi in una “tempesta perfetta” di impatto devastante. Ma dal 2012, i contorni del problema si sono andati confermando e precisando.

L’ultimo Rapporto speciale del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) – risale a ottobre 2018 – identifica rischi molto alti se solo raggiungiamo un aumento di temperatura di 1,5 °C (oggi siamo a circa 1 grado rispetto alle medie preindustriali). Se il riscaldamento continua al ritmo attuale, il fatidico +1,5 °C sarà raggiunto tra il 2030 e il 2050. Si prevede allora un aumento della temperatura media nella maggior parte delle regioni terrestri e oceaniche, ed episodi meteorologici più violenti (caldo estremo, forti precipitazioni e siccità), impatti sulla biodiversità e sui mari a cui sarà difficile adattarsi. Inoltre, diverrà concreto il rischio di cicli cumulativi che possono portare a un riscaldamento catastrofico entro la fine del secolo.

Forno autoriscaldante

Questo aspetto è stato dettagliato lo scorso agosto nello studio intitolato “Traiettorie del sistema Terra nell’Antropocene” che proietta un’elevata probabilità di innescare una “hothouse Earth”, cioè una “Terra forno autoriscaldante”. Un gruppo internazionale di scienziati individua dieci cicli cumulativi e punti di mutazione che si apprestano a sospingere il pianeta verso un rapido aumento della temperatura media: un aumento che è probabile si assesti intorno a ingestibili 4 o 5 gradi centigradi.  Questi sono: scongelamento del permafrost, emissione di idrati di metano dai fondali oceanici, indebolimento dei pozzi di carbonio (prevalentemente boschi e foreste), aumento della respirazione batterica nei mari, morte della foresta pluviale amazzonica, indebolimento della foresta boreale, riduzione del manto nevoso nell’emisfero settentrionale, scomparsa del ghiaccio in estate nel Mare Artico e riduzione della banchisa ghiacciata marina antartica e delle calotte polari. Johan Rockstrom, leader dello studio nonché ex direttore esecutivo dello Stockholm Resilience Centre sottolinea come «questi punti di non ritorno possono potenzialmente comportarsi come una fila di tessere di un domino: una volta che una viene spinta, spinge la Terra verso l’altra, può essere molto difficile o impossibile fermare l’intera fila del domino. Se la ‘Hothouse Earth’ diventerà realtà diversi luoghi sulla Terra diventeranno inabitabili».

Ad esempio, per capire: il riscaldamento globale causato da noi autoproduce sempre più riscaldamento perché fa fondere i ghiacci; infatti, i ghiacci sono bianchi e riflettenti e quindi rispediscono nello spazio molta radiazione solare, e se invece spariscono non lo fanno più e il calore aumenta, con la conseguenza che si fondono distese ghiacciate ancora maggiori in un ciclo crescente e in costante accelerazione.

Ma opera anche una seconda valanga cumulativa, che è addirittura peggiore e riguarda noi: la distruzione della natura riduce le risorse e ci induce quindi a combatterci l’un l’altro per accaparrarci quel che rimane, ovvero ci spinge a un comportamento che distrugge la natura ancora di più, anche in questo caso delineando lo spettro di una devastazione crescente di cui diveniamo attori e nel contempo vittime e che si autoalimenta in un ciclo dai ritmi sempre più accelerati.

Inizia il countdown 

Siamo sulla soglia di un incubo del genere e gli esperti ci danno fra i dieci e i vent’anni di tempo per correre ai ripari prima che questi cicli dirompenti divengano inarrestabili. Pochi anni per evitare un mondo con meno acqua e cibo, flagellato da eventi climatici violenti, con milioni di migranti in movimento, pochissime certezze e molte lotte per il poco che rimane.

Veniamo alle buone notizie: strano ma vero, tutto questo può finalmente “costringerci” a diventare più ricchi e competitivi, avere più pace e sicurezza, e ad aumentare a dismisura la qualità delle nostre vite. La scienza, oltre a dirci che abbiamo pochissimo tempo per invertire la rotta, suggerisce anche che non ci saranno molte vie di mezzo, siamo al dunque e siamo a un bivio: il collasso della natura ci pone davanti a un’alternativa netta, o si va verso un pianeta molto migliore, più ricco e più vivibile, oppure verso una terra decisamente inospitale per l’umanità.

Quest’idea non è molto compresa, né condivisa. Quello che quasi tutti noi pensiamo è che per salvare la natura dobbiamo sobbarcarci un mondo peggiore di quello che conosciamo, non un mondo dove stiamo meglio. Sì… l’ecosistema – ci diciamo – forse è necessario evitare che muoia e quindi dovremo rinunciare a molti dei benefici della società dei consumi, rallentare lo sviluppo, avere di meno, sopportare questo sacrificio perché non possiamo fare altrimenti. Non è certo una visione che infonde l’entusiasmo del cambiamento. Tutt’al più – se veramente capiamo che un po’ di ecosistema è necessario – potrebbe motivarci a uno sforzo minimo necessario e da rinviare il più possibile: proprio ciò che è successo finora. Solo che così, a forza di rimandare e minimizzare, ci siamo avvicinati pericolosamente ad alcune soglie di non ritorno da una trasformazione traumatica del nostro mondo che non promette vita facile a nessuno.

L’idea che salvaguardare l’ecosistema comporti dei costi pesanti e un impoverimento generale, tuttavia, è sbagliata. È sempre la scienza a dirci che tutti i comportamenti che tutelano la natura – a livello individuale, familiare, locale, di impresa, nazionale e globale – sono anche comportamenti che creano ricchezza e benessere, non povertà e rinunce. Anche se non servissero a proteggere l’ecosistema, sarebbero comunque i comportamenti più convenienti, quelli che ci garantiscono salute, longevità, abbondanza, sicurezza, pace, giustizia, e spesso anche molti più soldi in tasca. In più salvano la Terra: “grasso che cola…”.

Finora, in fondo, abbiamo pensato che l’essere umano, in quanto dotato di ragione, ha un potenziale infinito di sviluppo e ricchezza, ma questo è ahimè limitato dal fatto che viviamo su un pianeta che non ha risorse infinite. La scienza – l’insieme delle discipline scientifiche, da quelle più quantitative fino a quelle più sociali – ci indica invece che è vero il contrario: uno sviluppo in armonia con il tessuto di vita di cui siamo parte moltiplica all’infinito la nostra ricchezza invece di limitarla. A livello individuale, ad esempio, la dieta in assoluto più salutare – che limita al minimo le proteine animali e privilegia cibi vegetali – è anche quella a minor impatto ambientale. Quindi, vera salute individuale coincide con salute ambientale; ma coincide anche con salute sociale e pace, perché una dieta del genere corregge l’ingiustizia di un mondo polarizzato fra ricchi, obesi, cardiopatici e diabetici da una parte, e sottonutriti privi di speranze dall’altra, disinnescando oltretutto una fonte di conflitto fra questi due mondi.

Oppure, recuperare un ettaro di terreno degradato, disboscato, o desertificato ha un costo generalmente abbordabile ed è un’efficacissima maniera per creare un pozzo di carbonio. Allo stesso tempo, protegge la biodiversità e mantiene le capacità produttive di quella terra, dà un orizzonte di dignità, reddito e lavoro ai suoi occupanti tradizionali, ancorandoli alle loro terre e quindi frenando pericolose dinamiche conflittuali e migratorie.

Non sono coincidenze casuali. Si tratta di un meccanismo di portata generale, un moltiplicatore connaturato a tutto il sistema. Esso opera anche per l’economia, le imprese e le professioni. ​​Cercheremo di capire con altri approfondimenti su Chages come una green economy rappresenta l’orizzonte di un grande ciclo espansivo – non di una decrescita più o meno felice – e porti opportunità a molti settori economici e professionali. Possiamo salvare il nostro futuro diventando competitivi, felici e sicuri; ma abbiamo poco tempo per scongiurare il rischio, e ancora meno tempo per non farci battere dalla concorrenza internazionale che l’ha ben capito: sostenibile conviene!

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.