Gli uomini sono di Marte, il clima è di Venere

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Gli uomini sono di Marte, il clima è di Venere

Cambiamenti climatici, mercato del lavoro e ecomafie sono i temi del Festival di Internazionale di Ferrara in collaborazione con Gruppo Unipol e Unipolis.

globe model in plastic bag, save the world environment

Cambiamenti climatici, mercato del lavoro e ecomafie sono i temi del Festival di Internazionale di Ferrara in collaborazione con Gruppo Unipol e Unipolis.

I copioni cinematografici, specialmente nella fantascienza, evocano spesso lo scenario del nemico esterno che ci porta a superare le divisioni fra i popoli: fra asteroidi e alieni invasori, lo schema si ripete spesso e sono innumerevoli le scene finali coi nemici di sempre che invece danzano assieme sul relitto dell’astronave extraterrestre distrutta. Nel caso del cambiamento climatico il nemico non è esterno – scettici a parte, il 100% delle accademie scientifiche nazionali avallano l’idea che l’abbiamo creato noi – ma è sufficientemente comune da obbligarci, forse, a superare i nostri limiti del passato e spingerci a progressi a cui non arriveremmo da soli, senza una sfida che ci costringe a unirci.

Se non ce ne occupiamo o, peggio ancora, se pensiamo di affrontarlo in maniera concorrenziale – nazione contro nazione, individuo contro individuo, e chi è più forte arraffi quel poco che la natura continua a dare! – seguiremmo i nostri istinti: e di fatto, anche il più forte così si farebbe del male perché indebolirebbe il sistema umano e naturale al punto che non produrrebbe neanche più quelle briciole residuali che lui si accaparra. In uno scenario di indifferenza o peggio di competizione di fronte alle cause e agli effetti del riscaldamento globale, i poveri soffriranno per primi, ma alla fine non si salva nessuno.

La scienza traccia diversi scenari per un futuro molto prossimo, che dipingono tutti un clima comunque alterato a cui ci si dovrà adattare con notevoli costi e sforzi, ma entro un ventaglio di possibili estremi molto diversi. In due secoli, dalla rivoluzione industriale a oggi, si è registrato un aumento medio della temperatura globale di circa 1 grado centigrado. Per il futuro – un futuro troppo prossimo, entro la fine di questo secolo – gli studi prefigurano questa dinamica in accelerazione più o meno brutale: gli scenari variano da un aumento della temperatura media contenuto entro 2 gradi centigradi – ossia un orizzonte di gravi problemi che appaiono, però, ancora gestibili – fino a condizioni che puntano invece a un incremento di 4,8 gradi, ovvero a una situazione di vera catastrofe ambientale e sociale.

La differenza fra questi scenari previsti dall’IPCC non dipende tanto dalle diversità fra i vari tipi di modelli e metodi applicati dagli scienziati, bensì da un’incognita fondamentale: come si comporterà l’umanità? La correlazione fra emissioni e riscaldamento è univoca, mentre è necessario tracciare previsioni diverse a seconda di quello che faremo noi umani. In altre parole, i modelli ci dicono che la scelta del futuro che avremo è tutta nostra. Ma la posta in gioco non è ancora sufficientemente chiara per il pubblico, perché non sa che gli uomini sono di Marte e il clima è di Venere. È ragionevole prevedere scenari che variano fra i 2 e i 4,8 gradi perché il clima è di Venere. Ed è purtroppo possibile considerare ipotesi molto peggiori, perché gli uomini sono di Marte.

Lo scenario peggiore descritto dall’IPCC è quello dei 4,8 gradi che significano una vera e propria estinzione di massa sulle terre e nei mari, aumenti rapidi e traumatici del livello degli oceani che sommergeranno molte aree costali abitate, disastrose alternanze di siccità e alluvioni sulle aree continentali, e molto altro. I meccanismi biosferici che rendono plausibile un’accelerazione così impressionante del riscaldamento – un aumento di temperatura di circa 4 gradi entro un secolo – si chiamano “cicli di feedback positivo”, ovvero dinamiche cumulative insite al sistema biofisico che si mettono in moto se si varcano certi livelli di riscaldamento, identificati dagli scienziati con la soglia di 2 gradi che si deve assolutamente evitare di superare. Alcuni di questi cicli, sul nostro pianeta, sono già scattati, con il più preoccupante di loro dato dallo scioglimento del permafrost che rilascia metano, un gas a effetto serra molto più potente dell’anidride carbonica. Meccanismi terrestri di questo tipo sono meno drastici, ma non sono molto diversi da quelli che hanno condannato il pianeta Venere a temperature medie superiori ai 450 gradi, raggiunte perché oltre una certa soglia di temperatura i suoi minerali superficiali si sono gassificati creando un effetto serra sempre maggiore, che ha condotto a una sempre maggior gassificazione degli stessi minerali, in un ciclo cumulativo dall’esito infernale.

Il temibile scenario biofisico dei cicli di feedback è considerato raggiungibile in un certo scenario socio-economico umano definito “business as usual”: in pratica, dipende dal comportamento umano e ci sono molte probabilità di creare la catastrofe se noi umani continuiamo ad agire come sempre, “business as usual”, come se il problema non esistesse. Ma non è tutto. Pur essendone consci, gli scienziati non hanno invece modellizzato il fattore Marte – dio della guerra – che è tutto umano.
In realtà, se superiamo i 2 gradi centigradi lo scenario di un’umanità che persevera imperterrita a fare quello che ha sempre fatto – il temuto “business as usual” – diventa un’ipotesi idilliaca e del tutto ottimista: al contrario, un nefasto ciclo cumulativo di condotte irresponsabili rischia di mettersi in moto nella sfera umana in parallelo al disastro crescente nella biosfera, con le due dinamiche distruttive che si alimentano a vicenda. Infatti, cambiamenti climatici severi porteranno a rapidi spostamenti delle risorse disponibili, comprese quelle più basilari come l’acqua, i terreni coltivabili e abitabili, il cibo. Si apriranno allora delle competizioni e degli accaparramenti, delle sacche di instabilità e povertà violenta, ondate migratorie di portata inedita. In queste condizioni, l’unica risposta umana possibile per contenere il riscaldamento – ovvero quella multinazionale, cooperativa, e concertata – diverrebbe sempre più difficile da attuare e Marte, dio della guerra, si affaccerebbe inevitabilmente sulla scena.

Uno scenario in cui il conflitto imperversa sullo sfondo di un clima impazzito, in cui l’umanità si bombarda invece di impegnarsi unita per ridurre le emissioni, in cui mors tua diventa vita mea, non ha ancora una quantificazione in gradi centigradi, ma è chiaro che occorre assolutamente evitarlo e che dobbiamo agire subito. Tutto ciò potrebbe accadere in tempi brevi, e brevissimi sono i nostri margini di manovra prima di risvegliare Venere e Marte: questa è la posta in gioco.

Quindi, esiste una correlazione strutturale, profondissima, fra un approccio competitivo e la fine di ogni speranza, per tutti, anche per i più forti. Ma questo legame opera anche al contrario, secondo lo scenario del nemico alieno sconfitto per cui – unendoci – otteniamo molto di più che la semplice vittoria nel clima. Se guardiamo il contenuto di tutte le operazioni necessarie per disinnescare la minaccia climatica, scopriamo che implicano necessariamente e indipendentemente dal contributo che danno a tenere la temperatura sotto controllo:

  • Maggior benessere per gli individui, se scelgono stili di vita sostenibile,
  • Maggior performance e solidità delle imprese, come è provato dai tassi di crescita sensibilmente superiori alla media delle imprese che esercitano responsabilità sociale e ambientale,
  • Maggior integrazione cooperativa delle economie, perche’ nessuna comunità da sola ha tutti i mezzi, le risorse e le conoscenze per far fronte alla vastità dei mutamenti inconmenti,
  • Redistribuzione più giusta del reddito e quindi maggior sovranità delle comunità locali sui propri territori e destini, perchè un’economia sostenibile nasce dal valorizzare il potenziale di ciascun territorio concreto.

Ma tutto questo vuol dire pace.

In pratica, possiamo trasformare la sfida climatica da un problema a una soluzione. La questione dell’ingiustizia alimentare ne offre un esempio. I cambiamenti climatici acuiscono il divario fra ricchi e poveri, anche perché sono più intensi proprio lì dove ecosistemi fragili si sovrappongono società fragili, con alcune aree dell’Africa a offrire un caso emblematico. In particolare, il riscaldamento globale è percepito come un rischio per la sicurezza alimentare dei più deboli perché rende incerte le stagioni e inaridisce le terre.
L’analisi più diffusa ha contorni inquietanti: dar da mangiare a una popolazione mondiale che si avvia ai nove miliardi e mezzo di abitanti nel 2050 e che è sempre più urbanizzata – si sente dire – richiede un aumento della produzione di cibo del 70%, che comporta un ulteriore fabbisogno di energia del 37% e il 55% in più d’acqua consumata. A questo quadro si aggiungono i cambiamenti climatici che esacerbano la fragilità dei suoli. Si profila quindi anche un’ulteriore disastrosa spinta a occupare con l’agricoltura i pochi ecosistemi rimasti intatti.

Questa visione si incentra tuttavia su un’agricoltura industriale e di vasta scala che ha sì rendimenti elevati, ma che tende a estromettere i poveri dalle loro piccole fattorie familiari, rendendole marginali e non competitive, e favorendo quindi il “land grabbing”, ovvero il moderno latifondo internazionale per cui Stati e imprese dominanti accaparrano distese sempre maggiori di terreno arabile nei paesi poveri. Si tratta inoltre di un tipo di agricoltura che si nutre di fertilizzanti chimici dall’elevato impatto ambientale e responsabile di circa il 20% delle emissioni di gas serra: una contraddizione fra sviluppo e ambiente che abbiamo accettato in nome dell’abbondanza.

Le sacche di fame non dipendono dalla mancata abbondanza: produciamo già oggi cibo sufficiente a nutrire oltre 10 miliardi di persone. Il problema è la distribuzione e abbiamo contribuito a crearlo proprio spodestando i più deboli dai loro sistemi produttivi, in nome di un’abbondanza che doveva servire anzitutto a loro ma finisce soprattutto a ipernutrire un Occidente già obeso, cardiopatico e diabetico.

Ma non tutta l’agricoltura è così. La piccola agricoltura familiare, specie se condotta con metodi tradizionali attualizzati, ha invece la caratteristica di assorbire carbonio dall’atmosfera in maniera molto efficiente. E la stessa agricoltura favorisce anche la biodiversità; l’equilibrio idrico; la mitigazione locale del clima (la copertura vegetale diminuisce localmente le temperature); il consolidamento comunitario; la creazione di un surplus agricolo da reinvestire nei mercati locali; la libera responsabilità – l’empowerment, come si suole chiamarla – locale, familiare e femminile; l’ancoraggio alle comunità d’origine e un freno alle spinte migratorie. Fornisce inoltre un freno al land grabbing grazie alla riappropriazione delle terre ridivenute produttive, e fa rinascere stili di vita e dimensioni di dignità umana che disinnescano i fanatismi con la nobilitazione e spinta all’ammodernamento dei saperi tradizionali e identitari.

Ogni anno si degradano 12 milioni di ettari di terre. Buona parte è nel Sahel, da dove nascono migrazioni, traffici e terrorismo che coinvolgono anche noi. Lì terre semidegradate sono ampiamente disponibili e recuperare un ettaro per restituirlo alla piccola agricoltura familiare nel Sahel costa in media 130/200 dollari: con poche cautele alla portata delle comunità rurali africane si riesce a riattivarne la fertilità. Scopriamo allora che la stessa agricoltura più umana, quella che redistribuisce reddito, sicurezza e dignità, è anche quella che assorbe i gas serra e non in modo marginale: politiche di questo genere, praticate su vasta scala, potrebbero da sole portare un terzo delle riduzioni di emissioni necessarie per evitare la catastrofe climatica. Basta cambiare prospettiva: con un solo gesto di giustizia, possiamo innescare un ciclo di riequilibrio umano e ambientale che offre a tutti orizzonti più sicuri. E costerebbe in totale meno di un decimo della spesa annuale in armamenti. Funziona così, manca solo un pezzo del puzzle: che finalmente apriamo gli occhi.

Cambiamento climatico, mercato del lavoro ed ecomafie sono i temi degli incontri e delle iniziative organizzati al Festival di Internazionale a Ferrara (4-6 ottobre 2019) che vedono la collaborazione del Gruppo Unipol e Unipolis che si tiene dal 4 al 6 ottobre.

Sabato 5 ottobre
Tra i relatori oltre a Grammenos Mastrojeni, che parteciperà al panel dal titolo “Con l’acqua alla gola” (ore 11.30 presso il Teatro Nuovo) insieme con Francesco Lamperti, Professore della Scuola Superiore Sant’Anna, Preethi Nallu, giornalista indiana, Gabriele Crescente, giornalista di Internazionale, moderatore. Nel pomeriggio (ore 15, Piazza Municipale) Marisa Parmigiani, responsabile sostenibilità Gruppo Unipol e Fondazione Unipolis, è tra i protagonisti dell’appuntamento “Giovani speranze”, un dibattito sul lavoro giovanile tra tirocini, volontariato e contratti a tempo e sulle tutele per valorizzare questi percorsi non tradizionali. Gli interventi sul tema sono di Fabrizio Barca, Forum delle Disuguaglianze, Massimiliano Mascherini, Eurofound. Coordinerà il confronto Alessandro Lubello, giornalista di Internazionale.

Domenica 6 ottobre
Alle 12 nel Cortile del Castello nel corso di “Pollice nero” si analizzerà come la criminalità organizzata da anni abbia sferrato un attacco all’ambiente. Ci saranno i contributi di Davide Barletti, regista, Enrico Fontana, Legambiente, Romana Puiuleț, giornalista romena e Vittorio Verdone, Gruppo Unipol. Gestisce il dibattito Andrea Palladino, giornalista.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.