Lavoro: cos’è l’effetto Titanic

È l’“effetto Titanic”: sempre più lavoratori con esperienza al lavoro e, allo stesso tempo, minor ricambio generazionale. Come ha fotografato l’Istat pochi mesi fa, la po
Fino a quando il battito del nostro cuore accelererà non al ritmo del nostro passo, ma a quello del nostro timore, finché la paura resterà la nostra compagna silenziosa non saremo mai libere.
«La libertà», scriveva Theodor W. Adorno nei Minima Moralia, non consiste «nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta». Optare per una strada più illuminata, scrutare meticolosamente il percorso prescelto, tenere stretto in mano il cellulare, come fosse un amuleto, non è libertà. È il bianco sterile di un’assenza di possibilità, contrapposto al nero opprimente di una paura concreta. È una scelta che non libera, ma incatena; che non affranca dal controllo, ma vi si piega ineluttabilmente.
Viviamo in anni che ostentano fieri l’emancipazione femminile come uno dei più gloriosi traguardi sociali – un grimaldello dichiarativo del progresso di un sistema costruito su anglicismi come empowerment, equality, leadership che, precipitando sulla realtà, si rivelano perlopiù scatole vuote. Possiamo tutto, ci diciamo e ci viene detto; tranne, forse, tornare a casa da sole senza temere di non arrivarci mai. Abbiamo conquistato spazi, abbiamo afferrato diritti e abbiamo forgiato indipendenze; eppure, la paura del buio, relegata insieme a mostri immaginari negli armadi della nostra infanzia, si ripresenta oggi minacciosa e, ancor peggio, legittimata dalla consistenza di un pericolo reale.
La libertà non esiste se muoversi in autonomia è diventato un rituale composto dall’ansia, da un accurato esercizio di pianificazione, da bilanciamento calibrato tra suoni decifrati e ombre scandagliate. Non c’è libertà laddove condizionata dai binari del terrore e costretta in limiti che non ci appartengono, confini che si circoscrivono sempre più, fino a far percepire come insidiosa persino la luce del giorno. La libertà, semplicemente, non è libertà se esiste solo entro regole che non abbiamo scelto; non può essere tale, se revocabile in qualsiasi istante; non esiste, se, per goderne, obbliga a un atto di gratitudine votato all’essere ancora vive, a un movimento di distensione per non essere state reificate.
La paura è, senza dubbio, uno tra i più potenti strumenti di controllo: un meccanismo invisibile che, pur minacciando la libertà, ci garantisce – anche se in modo subdolo – l’esistenza. A livello fisiologico e neurologico, difatti, la percezione del pericolo non è la stessa per entrambi i sessi: le donne, storicamente, hanno subito una pressione evolutiva che ha favorito lo sviluppo di rapide risposte di autoprotezione, necessarie alla sopravvivenza. Diversi studi di neuroimaging dimostrano, infatti, che l’amigdala – madre della gestione delle emozioni e della risposta alla paura – tende a reagire con maggiore intensità nelle donne: tale iperattivazione, unita al sistema limbico e a una maggiore produzione di cortisolo, l’ormone dello stress, contribuisce a generare una percezione amplificata del pericolo, anche laddove non accertato, come in contesti isolati o scarsamente illuminati. Il sentore del pericolo, insomma, si è radicato come strategia di sopravvivenza. E noi viviamo una libertà condizionata: di fatto, un ossimoro.
Finché il battito del nostro cuore accelererà non al ritmo del nostro passo, ma a quello del nostro timore, finché la paura resterà la nostra compagna silenziosa, non potremo mai dirci veramente libere. La libertà non può coesistere con il terrore della violazione di un corpo, di un’identità, di una scelta. Che fare? Possiamo davvero rassegnarci a una libertà che esiste solo entro i confini tracciati dalla paura? Sì; perché, di fatto, l’unica scelta che abbiamo è non avere scelta.
Crediti foto: Michael Sala/Unsplash