La musica per il Pianeta

Society 3.0


La musica per il Pianeta

A 40 anni dalla notte in cui Quincy Jones fece il miracolo musicale di We are the world a favore della carestia in Etiopia, l’impegno delle pop star per cause benefiche non si è mai fermato.

«Check your ego at the door». Lasciate da parte il vostro ego prima di entrare: era questa la scritta che campeggiava su un cartello affisso all’entrata degli studi di registrazione della A&M a Hollywood, la sera del 28 gennaio 1985. Quello che più che un consiglio sembrava un ordine proveniva dall’auctoritas di Quincy Jones, il direttore musicale di una delle più grandi notti nella storia della musica pop: The Greatest Night in Pop, come da titolo del documentario di Bao Nguyen del 2024 che racconta l’incredibile making of di We are the World.

Fu, quella, la notte in cui qualche decina delle più grandi star della musica americana si ritrovarono intorno agli stessi microfoni per registrare la canzone di beneficenza più famosa (e che ha generato più introiti) di sempre. We are the World ha venduto globalmente venti milioni di copie (ottocentomila nella prima settimana dell’uscita, record destinato a rimanere imbattibile), risultato che, unito alle donazioni del pubblico, a un anno di distanza permise di raggiungere l’obiettivo di 50 milioni di dollari destinati alla popolazione colpita dalla carestia in Etiopia. Contrariamente ad altri casi celebri (ad esempio il concerto per il Bangladesh organizzato da George Harrison quindici anni prima) i soldi arrivarono effettivamente, e nella massima trasparenza, a chi doveva beneficiarne. Al di là delle impressionanti ricadute economiche, possibili in un mondo in cui i dischi si vendevano e una canzone poteva davvero diventare universale, a distanza di quarant’anni da quella magica notte californiana We are the World rimane un capitolo straordinario nella storia della cultura popolare. Qualcosa che oggi, almeno in quei termini, sarebbe impossibile per tanti motivi.

L’idea di un singolo a sostegno dell’Africa affamata era venuta a Harry Belafonte, artista da sempre impegnato nelle lotte per i diritti civili e in cause umanitarie, grazie anche all’impulso dato dal progetto Band Aid, che pochi mesi prima aveva riunito il meglio del pop inglese di allora, sotto il coordinamento di Bob Geldof, per realizzare il 45 giri natalizio Do they Know it’s Christmas?

Un grande successo, ma imparagonabile a ciò che sarebbe accaduto con Usa for Africa, il nome che avrebbe assunto la mega-band che incise We are the World e che in seguito sarebbe diventata fondazione benefica. È interessante ancora oggi paragonare i due brani, al netto dell’orecchiabilità di entrambi, perché in fondo dicono molto della diversità di approccio tra inglesi e americani: laddove i primi sono autori di una canzone dai toni mesti e neppure troppo sottilmente colpevolizzanti nei confronti dell’opulento Nord del mondo (un passaggio recita: “A Natale, è dura da sapere ma mentre ti diverti/c’è un mondo fuori dalla finestra/ed è un mondo di povertà e terrore/ dove un bacio d’amore può ucciderti/e c’è la morte in ogni lacrima”), quello americano è un inno all’unione tra le persone, tanto ingenuo e autoreferenziale (“we’re saving our own life”, salviamo anche le nostre vite, fu una strofa all’epoca giustamente messa alla berlina) quanto trionfale e trascinante nel suo sviluppo melodico. Forse persino troppo: un critico americano notò una certa assonanza con il jingle della Pepsi Cola, ricordato involontariamente (si spera, almeno) nel passaggio “there’s a choice we’re making…”.

Ma l’intento di Michael Jackson e Lionel Richie che scrissero il pezzo (inizialmente avrebbe dovuto far parte del team di autori anche Stevie Wonder) era proprio quello di creare un tormentone facile da memorizzare e abbastanza potente da smuovere le coscienze, e da questo punto di vista centrarono perfettamente il bersaglio. Non senza difficoltà, tanto che i due finirono il testo della canzone il giorno prima della sua incisione.

Una lotta contro il tempo, quella dei due musicisti, che ha reso ancora più epica tutta la vicenda. Il 28 gennaio era infatti una deadline improrogabile: o si faceva tutto quella notte o il progetto saltava. Oggi sarebbe infinitamente più facile: gli artisti si scambierebbero i loro contributi con dei file in rete che verrebbero assemblati nel giro di poche ore. All’epoca, riunire alcune delle più famose stelle della musica pop nello stesso luogo fisico era impresa al limite dell’impossibile. Opportunamente, venne scelta quella data perché coincideva con la cerimonia degli American Music Awards a Los Angeles, che lo stesso Richie presentò e dove fece incetta di premi. Molti degli artisti vennero prelevati dalle limousine e portati direttamente negli studios dove passarono l’intera nottata a mettere insieme, contributo vocale dopo contributo vocale, il brano sotto la direzione di Quincy Jones.

E qui torniamo al documentario di Nguyen, che grazie alle immagini di repertorio da dietro le quinte racconta quella notte con una immediatezza commovente. Palpabile l’emozione degli artisti, stravolti dalla stanchezza ma consapevoli di stare vivendo un momento unico e che sarebbe rimasto nella storia della musica. Vedere nella stessa stanza icone come Diana Ross, Bruce Springsteen (arrivato in extremis dopo un concerto), Dionne Warwick, Paul Simon, Tina Turner, Billy Joel, Smokey Robinson fa effetto, e intenerisce a distanza di tutti questi anni notare l’atteggiamento di deferenza degli uni con gli altri, il rispetto reciproco, persino una certa indisciplinatezza da classe scolastica in gita tenuta, tuttavia, a bada dal maestro Jones.

Tra le tante leggende presenti, c’era anche Bob Dylan. Nel video della canzone è rimasto celebre il frame che lo coglie in una espressione di assoluto spaesamento. C’era una ragione: dal punto di vista puramente vocale, Dylan quella sera era forse il meno dotato di tutti e aveva paura di sfigurare. Nel film si vede Steve Wonder che lo prende da parte e lo istruisce su come deve cantare la sua strofa, con Bob che finalmente si rilassa.

Alle prime luci dell’alba, la session era finita. Le star sciamarono via dagli studi, scambiandosi numeri di telefono e promesse di rivedersi come dopo una vacanza. Era davvero un altro mondo. Oggi la semplicità forse un po’ retorica (no, diciamolo: decisamente retorica) di We are the World può suonare quasi ridicola, e anche ai tempi ci fu chi la criticò duramente. Ma nonostante tutte le accuse di paternalismo occidentale, ipocrisia e cattiva coscienza da miliardari che vogliono “fare i buoni”, l’operazione Usa for Africa aveva davvero qualcosa di genuinamente utopistico, e certo non si può mettere in dubbio la sincerità di intenti di Belafonte così come di qualunque artista coinvolto nel progetto. Sei mesi dopo, nel luglio del 1985, si sarebbe tenuto il Live Aid, il concerto-maratona a Wembley e Philadelphia organizzato dall’infaticabile Geldof con il supporto anche di Usa for Africa. Un evento che ha cambiato per sempre l’approccio alle cause sociali da parte delle popstar. Nei decenni a seguire si sono susseguiti molte altre kermesse benefiche (come il Live8 del 2005, in occasione del ventennale del concerto), ed è stato proprio quello il modello a cui si sono ispirate e si ispirano tuttora, anche in un mondo molto più connesso e complesso di quello del 1985. Ciò che Do They Know It’ Christmas, We Are the World e il Live Aid hanno insegnato è che l’impegno del mondo dello spettacolo – che sia per raccolte di fondi o per sensibilizzare l’opinione pubblica intorno a determinati temi, come ad esempio il debito monetario dei paesi poveri – è tanto più forte e in grado di incidere quando è comunitario e globale, non lasciato alle singole iniziative della celebrità di turno. Il peso specifico di un movimento artistico collettivo è indubbiamente più forte, e lo è tanto di più quando grazie alla popolarità di chi vi partecipa riesce a trovare sponde politiche fondamentali per indirizzare azioni concrete. I mass media di quarant’anni fa non sono forse più gli stessi di oggi, ma il principio di fondo rimane lo stesso: usare la forza d’urto dello showbusiness per spingere le persone ad attivarsi per il cambiamento.
E tutto è cominciato in quei giorni. Quando le popstar, improvvisamente, si ricordarono che esisteva “un mondo fuori dalla finestra”. E in cui, per un attimo, lasciarono il loro ego alla porta.

Crediti foto: Per concessione di Netflix

Copywriter, giornalista, critico musicale e docente di comunicazione. In pubblicità ha ideato campagne per brand come Fiat, Sanpaolo Intesa, Lancia, Ferrero, 3/Wind. Insegna comunicazione presso lo IAAD di Torino e la Scuola Holden. Collabora con testate quali Rolling Stone, Il Fatto Quotidiano, Rumore. Ha scritto e tradotto diversi volumi di storia e critica musicale per case editrici come Giunti e Arcana.​