2025: dove va il clima?

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2025: dove va il clima?

Anche questa volta a Cop29 non è successo quello che doveva. Adesso abbiamo due prospettive: continuare a credere ai negoziati oppure ancorarci al mondo reale e agire.

A poco più di un mese di distanza utile per decantare le tante reazioni, la valutazione sull’ennesima Conferenza degli Stati membri della Convenzione (COP) ONU sui cambiamenti climatici – quest’anno alla edizione 29 conclusa a Baku – ci offre lo spunto per riflettere su dove vanno le politiche per il clima nel 2025. Dopo aver partecipato a 23 COP, comincio a pormi degli interrogativi. Non sta succedendo quello che doveva: dal 2023 il cambiamento climatico è passato da solida constatazione scientifica, che qualcuno poteva però giocare a negare con il pubblico, a drammatica esperienza diretta nel quotidiano di molti, ovunque, incontrovertibilmente. Ma una reazione adeguata tarda ancora a prendere forma.

Abbiamo due prospettive: all’interno della logica della COP e dei suoi negoziati e dall’esterno, ancorandoci noi al mondo reale e a quello che lì sta succedendo – è questo il problema che vorrei sottolineare – più di quanto la stessa COP come meccanismo negoziale sembri capace di fare.

Luci e ombre di COP29

Nella logica dell’ormai quasi trentennale negoziato, il più vasto della storia, mai si era visto un processo internazionale che richiama fra i 50 e gli 80.000 partecipanti. Questa doveva essere la COP della “finanza climatica”, ovvero del sostegno finanziario che i Paesi più ricchi e più colpevoli di aver modificato il bene comune clima dovrebbero sborsare per aiutare i più poveri e meno colpevoli ad affrontare i pesanti impatti che li attendono e a fare la loro parte per proteggere l’equilibrio naturale. Su questo fronte, luci e ombre, ma è sempre così. Si è negoziato su delle cifre in un tira e molla fra il dare dei ricchi e il ricevere dei più poveri che ha prodotto un accordo in cui tutti pensano di aver perso: 300 miliardi di dollari promessi su un certo arco temporale, di provenienza non molto specificata, a fronte di una rivendicazione per oltre un trilione.

  • Luci. È passata la consapevolezza che la misura dell’impegno concordato col famoso Accordo di Parigi del 2015 (100 miliardi di dollari all’anno raggiunti a fatica) ormai è fuori scala, parliamo di rivoltare come un calzino la gestione economica, sociale e territoriale dell’intero globo terrestre. E una buona spinta in questa direzione è venuta dal G20 che si è svolto contemporaneamente alla COP da cui è partita la chiara indicazione che la scala adeguata è nei trilioni e non nei miliardi.
  • Ombre. Il metodo. A rischio di sembrare iconoclasta, in diversi momenti del negoziato non ho potuto fare a meno di pensare al caso di scuola dell’acquisto di un tappeto: chiedo 100 per ottenere 50 e simili. E questo ci porta allo sguardo sulla COP da fuori, uno sguardo più agganciato al mondo reale. Un fatto sembra dimenticato nei negoziati sulla finanza climatica: la transizione ecologica dell’economia non è una gigantesca e triste austerity perché altrimenti implode il pianeta. Al contrario, gli economisti la additano come un cammino di redistribuzione del reddito: strutturalmente rispettando l’ambiente l’economia diventa più giusta e, viceversa, un’economia più equa strutturalmente protegge l’ecosistema. La natura non è aggredita dallo sviluppo bensì dalla polarizzazione produttiva che, mentre crea ricchi e poveri, sospinge le mega-monoculture agricole e industriali, portando anche le campagne a svuotarsi e le città a scoppiare. Ma la redistribuzione dell’attività economica serve anche ai ricchi, perché un’economia polarizzata fra pochi che hanno tutto e molti diseredati, non può avere un nuovo ciclo espansivo. In pratica, con la sostenibilità ci guadagniamo tutti in benessere, pace, stabilità, tenuta dell’ecosistema ma anche in espansione economica non nociva. Si tratta allora di investire per allargare quei colli di bottiglia che frenano la transizione.

Negoziare con la logica del risarcimento

Il punto è che negoziando con la logica di un risarcimento – il famigerato capitolo del “loss and damage” che ispira il negoziato sulla finanza climatica – la COP sembra essersi dimenticata delle evidenze economiche: questi soldi devono essere intesi come investimenti, non risarcimenti. Ipotizziamo di abbandonare i poveri a loro stessi: entrano in un ciclo vizioso. Il degrado ambientale li destabilizza e quindi non possono occuparsi del loro ambiente che di conseguenza peggiora, per loro e per tutti, di modo che il ciclo riparte nefasto e amplificato.

E questo ciclo, a sua volta, fa partire almeno due catene di conseguenze: la catastrofe climatica per tutti, perché non è quantitativamente possibile rimanere al di sotto delle soglie di tracollo dell’ecosistema se i poveri in stato di emergenza non sono in grado di gestire costruttivamente i loro territori; e non c’è nessun settore, neanche il fossile, che possa considerare questo scenario conveniente. Ma anche prima, la destabilizzazione ambientale dei poveri fa partire catene di migrazioni e conflitti e cancella interi mercati trasformandosi – a voler essere cinici – in costi importati dalle economie ricche enormemente superiori a qualsiasi cifra rivendicata alla COP. È evidente dove conviene investire prima.

È​ Vice Segretario Generale per l’Energia e l’Azione Climatica dell’Unione del Mediterraneo. È​ un diplomatico italiano ed è stato coordinatore per l'eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo. È stato delegato alle Nazioni Unite, console in Brasile, consigliere politico a Parigi e, alla Farnesina, responsabile dei rapporti con la stampa straniera e direttore del sito internet del Ministero degli Esteri. Da una ventina d'anni concentra la sua attenzione sui cambiamenti climatici. Nel 2009 la Ottawa University in Canada gli ha affidato il primo insegnamento attivato da un'università sulla questione ambiente, risorse, conflitti e risoluzione dei conflitti. Collabora da tempo con il Climate Reality Project, fondato dal premio Nobel per la pace Al Gore.