Pedalando verso il benessere
Continua il viaggio di Grammenos Mastrojeni alla ricerca di soluzioni che possono condurci con i nostri comportamenti verso una felicità sostenibile. Abbiamo esplorato il tema del
Essere indebitati è generalmente visto come qualcosa di disdicevole. Ne consegue l’imperativo categorico che bisogna far fronte agli impegni, costi quel che costi. Sul fatto che sia giusto inchiodare i debitori, Stati compresi, alle loro responsabilità quasi nessuno ha dubbi. Ma si parla sempre e solo di soldi. Perché non si ragiona mai in questo modo in termini di ambiente?
Avete mai sentito fare ragionamenti sul debito ecologico? Per fortuna qualcuno che li fa c’è. «Dovete lavorare su questa parola: il debito ecologico». A dirlo è stato Papa Francesco a maggio, durante l’udienza ai partecipanti all’incontro promosso dalle Pontificie Accademie delle Scienze e delle Scienze Sociali sul tema Dalla crisi climatica alla resilienza climatica. Ma sarebbe forse più corretto dire che in tale occasione il pontefice ha semplicemente ribadito il concetto, già affrontato nell’enciclica Laudato Si’, dove al paragrafo 52 si legge: «Il debito estero dei Paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico». Per spiegare facciamo un passo indietro.
L’idea del debito ecologico è in circolazione da oltre trent’anni.Pare che l’espressione sia stata usata per la prima volta a metà degli anni ‘80 del secolo scorso in un documento di impronta eco-femminista pubblicato dal partito dei Verdi tedesco. A cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 il debito ecologico fu al centro della Campagna Nord-Sud, biosfera, sopravvivenza dei popoli, debito promossa in Italia dal famoso ambientalista Alexander Langer. Ma una sua diffusione un po’ più incisiva si ebbe a inizio anni ‘90 per merito dei primi due studi scientifici dedicati: uno pubblicato in Cile dall’Istituto di Ecologia Politica, l’altro pubblicato in Svezia a beneficio dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente. Il tema tenne banco anche al celebre Summit della Terra di Rio de Janeiro nel 1992. Presero il via campagne di sensibilizzazione a livello internazionale, che videro particolarmente attive Ong sudamericane, fra le quali l’ecuadorianaAcción Ecológica. Nacquero organizzazioni specificamente dedicate alla promozione del dibattito e al riconoscimento del debito ecologico, come SPEDCA (Southern People Ecological Debt Creditors Alliance) ed Enred (European Network for the Recognition of the Ecological Debt).
In generale, il debito ecologico fa riferimento, in termini di obbligazione e responsabilità, a quanto i Paesi industrializzati, o Nord del mondo, hanno accumulato nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, o Sud del mondo, per aver sfruttato le loro risorse naturali e aver contribuito in modo determinante al loro degrado ambientale e sociale. C’è chi ha provato a darne una definizione come danno ecologico causato nel tempo da un Paese in altri Paesi, o in un’area sotto la giurisdizione di un altro Paese, attraverso i suoi modelli di produzione e consumo. Più nello specifico il debito ecologico, che non va confuso col concetto di impronta ecologica – col quale tuttavia è in stretta relazione -, può essere suddiviso in quattro diversi ambiti.
Il primo è il debito di carbonio: il Nord è “indebitato” col Sud perché è largamente più responsabile delle emissioni di gas serra alla base del riscaldamento globale e del collasso climatico in corso. Il secondo è quello dei passivi ambientali: sono i “debiti” che il Nord ha accumulato attraverso l’estrazione e lo sfruttamento delle risorse naturali del Sud e delocalizzando nel Sud le imprese a più alto impatto ambientale. C’è poi l’esportazione dei rifiuti: il Nord è “debitore” del Sud perché lo ha utilizzato a mani basse come discarica per i rifiuti più difficili, pericolosi e soprattutto costosi da smaltire. Infine, c’è la biopirateria: il Sud è infinitamente più ricco del Nord in termini di biodiversità, ma il Nord, attraverso accordi, norme e brevetti guarda caso adatti allo scopo, si è appropriato a poco prezzo di saperi, conoscenze, risorse (ad esempio sementi, codici genetici di piante) del Sud, traendone grande ricchezza.
Inquadrato il concetto, la questione che si è posta è stata quella della quantificazione del debito ecologico, in termini monetari oltre che fisici. Ma quantificarlo nella sua interezza è affare assai complesso. Addirittura, c’è chi ritiene sia impossibile farlo compiutamente. Altri ritengono, invece, che ci si debba almeno provare perché il linguaggio dei soldi è l’unico che il Nord del mondo capisce. Ci sono stati tentativi di calcolarlo in riferimento all’impatto di determinate attività industriali in specifici territori, ad esempio in Belgio. Riguardo a certi ambiti del debito ecologico è comunque un esercizio che si può fare: l’esempio classico è il “prezzo” alle emissioni di gas serra, su cui però pesa la vexata quaestio dell’uniformità a livello globale, che manca. Un altro esempio è il fondo “loss and damage” stabilito, dopo lunghissima attesa, alla COP27 di fine 2022, che dovrebbe appunto compensare i Paesi più poveri – ma la strada per arrivarci sembra ancora lunga e faticosa – per i danni e le perdite causati dalla crisi climatica. In ogni caso siamo ben lontani dal disporre di metodologie condivise sul calcolo del debito ecologico nel suo insieme.
La condivisione è pressoché unanime, invece, sul fatto che il debito ecologico a oggi accumulato dal Nord a partire dall’epoca coloniale sia di gran lunga superiore al debito finanziario accumulato dal Sud. Poi, sul fatto che oltre al riconoscimento che esiste un debito pregresso su cui intervenire, bisogna evitare che esso continui ad aumentare, spezzando il circolo vizioso dell’accumulazione. Ma soprattutto nessuno nega che via sia una relazione stretta e perversa tra debito ecologico e debito finanziario: più un Paese è schiacciato dal debito estero, infatti, più è costretto a “svendere” lo sfruttamento delle sue risorse naturali, per cercare col ricavato di pagare gli interessi sul debito. Col risultato che il debito ecologico nei suoi confronti – in capo, per intendersi, ai suoi “sfruttatori” – non può che aumentare.
Se, allora, è vero che sono tante le direzioni percorribili, articolate negli ambiti di cui si è detto, per provare a ridurre il debito ecologico o almeno a far sì che non aumenti, la strada maestra rimane una: ridurre il debito estero del Sud del mondo. «Il debito ecologico e il debito estero sono due facce di una stessa medaglia», ha detto sempre Papa Francesco, che ha chiesto di sviluppare una Carta finanziaria globale entro il 2025 per definire una nuova architettura finanziaria in cui il debito ecologico sia finalmente riconosciuto. E ha dedicato la Giornata Mondiale della Pace del prossimo 1° gennaio 2025, anno del Giubileo, proprio al tema della remissione dei debiti (non solo in senso economico, ovviamente), nel solco della tradizione giubilare della cancellazione dei debiti. Del resto già nella Bolla di indizione del Giubileo il Papa aveva lanciato un «invito accorato (..) alle Nazioni più benestanti, perché (..) stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli». Come in occasione del Giubileo del 2000 aveva fatto Giovanni Paolo II, con un appello per la remissione del debito estero dei Paesi più poveri che produsse risultati importanti per decine di Paesi.
Sulla relazione tra i due debiti, infine, c’è un ultimo aspetto da evidenziare. L’esistenza stessa del debito ecologico, secondo molti, autorizza automaticamente a richiedere il riconoscimento del debito estero come debito “illegittimo”. Senza l’obbligo di ripagarlo, quindi. Anzi, con l’obbligo di cancellarlo.