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Per rendere efficace la protezione ambientale non bastano le leggi e gli accordi internazionali. Occorre monitorare i territori a rischio quotidianamente. L’esempio dei Naso a Panama.
Il re Reynaldo Alexis Santana ha i capelli neri e corti, lo sguardo serio e una tipica camicia bianca panamense. In una recente intervista se ne stava seduto su un trono interamente di legno, con i braccioli e lo schienale a forma di grandi felini dagli occhi sgranati. Un re giovane, che tra le altre cose si è appena dimesso, ma soprattutto l’unico re di tutto il continente americano. Ufficialmente non ce n’è nessun altro. Santana è il re dei Naso, un gruppo etnico (c’è chi li descrive come tribù, ma sono qualcosa di più) che vive a Panama. In America centrale.
Prima di parlare dei Naso, però, bisogna fare un passo indietro. Dire perché ne parliamo. Le popolazioni indigene ci interessano per un motivo semplice: hanno un peso politico sempre maggiore nelle questioni internazionali. Soprattutto in quelle che riguardano l’ambiente. Quindi la salvaguardia dei parchi naturali, le conseguenze del cambiamento climatico e la protezione degli ecosistemi. Il ragionamento è semplice: per rendere efficace la protezione ambientale non bastano le leggi e gli accordi politici, non bastano nemmeno i grandi patti stretti in sede diplomatica tra gli Stati. Serve anche avere qualcuno che monitora quei territori quotidianamente e nel dettaglio. E chi meglio delle popolazioni indigene può monitorare una parte impervia della Foresta amazzonica, un’altura sulle Ande cilene o la barriera corallina attorno a un piccolissimo e sperduto atollo nel Pacifico?
Insomma, le popolazioni indigene, per come stanno le cose oggi, sono utilissime perché vivono proprio nei luoghi remoti che ci serve monitorare. Luoghi di cui, altrimenti, sapremmo ancora meno del poco che oggi sappiamo. E dove senza le popolazioni indigene i bracconieri, i minatori illegali, i piromani, i narcos e le mafie del legname avrebbero vita facilissima.
E questo monitoraggio le popolazioni native lo fanno semplicemente vivendo le loro vite. Una comunità che vive di pesca sarà la prima ad accorgersi di un danno alla barriera corallina o della scomparsa di una certa specie di molluschi nella propria zona. Per di più i nativi, quasi sempre, hanno stili di vita strettamente legati agli ecosistemi, e si tratta di stili di vita con un impatto ambientale molto basso. Per tutte queste ragioni, sempre più spesso, oggi i leader dei nativi di varie aree del mondo vengono invitati anche a eventi politici di rilievo come le Cop, le conferenze delle parti che fanno riferimento alla convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Anche se con risultati non entusiasmanti. O quando c’è da decidere se e come intervenire su territori protetti e parchi naturali con nuove infrastrutture energetiche, miniere, strade o interventi agricoli.
Torniamo ai Naso. Non sono l’unica popolazione nativa di quello che oggi è lo stato di Panama. Ce ne sono diverse altre altrettanto riconosciute dalle leggi e con dei propri territori che amministrano in modo parzialmente indipendente. I Naso, però, sono la più interessante da osservare per capire com’è che succede, nella pratica, che i nativi si organizzino per salvaguardare un territorio. I modi sono vari, perché tutto dipende dal tipo di problema. All’inizio degli anni Duemila, per esempio, il re che ha preceduto Reynaldo Alexis Santana, “Tito”, guidò una trattativa per la costruzione di una diga sul fiume Bonyic. Parteciparono alla trattativa l’azienda colombiana che poi si occupò della costruzione, il governo panamense e diversi rappresentanti indigeni. Alcuni dei quali con opinioni molto contrarie alla nuova infrastruttura. L’investimento, da 50 milioni di dollari, alla fine si fece.
Che un popolo di nativi come i Naso, che conta circa 3mila persone in tutto, sia capace di gestire trattative diplomatiche come queste, non dovrebbe stupirci. In Europa non siamo abituati ad avere a che fare con popolazioni native: ma in America del Sud, del Centro e del Nord, così come in Australia, Nuova Zelanda e diverse parti dell’Africa e dell’Asia è la norma. I Naso, per esempio, secoli fa combatterono popolazioni indigene rivali e coloni spagnoli, poi decisero una ritirata strategica allontanandosi dalle coste trovando rifugio nell’entroterra, sui pendii ripidi e frastagliati a ridosso di quello che oggi è il confine con il Costarica. Già in quelle battaglie e in quelle migrazioni forzate l’ambiente ebbe grande rilevanza per i Naso: non solo perché fu l’ambiente che ne consentì il sostentamento, ma perché la giungla fitta e inaccessibile fu un riparo naturale essenziale. Per questo si dice che preoccuparsi dell’ambiente naturale, della sua gestione e della sua salvaguardia, è una “tradizione” dei Naso.
La lotta più importante dei Naso è stata per ottenere una propria comarca. Una comarca è una suddivisione territoriale di epoca spagnola, corrisponde su per giù alle nostre province, o alle nostre regioni. Ma nel contesto particolare di Panama, e dei nativi che abitano il Paese, una comarca è di fatto un territorio riconosciuto a livello nazionale e gestito collettivamente da una popolazione indigena.
Panama concesse una comarca per la prima volta ai Guna Yala nel 1938. Quasi un secolo fa. Poi altre popolazioni native ne ottennero delle altre tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. Territori estesi per migliaia di chilometri quadrati, con ecosistemi unici al mondo e risorse ambientali notevoli. I Naso, però, ancora negli anni Duemila, quelli in cui regnò Tito, non ne avevano una. Essere senza terra, per chi per secoli è stato scacciato dalle coste verso le montagne, è una condanna: senza un proprio territorio non è possibile mantenere una lingua, delle tradizioni e un’identità culturale. Tantomeno è possibile gestirlo e proteggerlo, un ambiente.
Dopo un periodo in cui sembrava che non ci fosse lo spazio politico per concedere una nuova comarca, ecco che nel 2011 è arrivato re Reynaldo Alexis Santana. La nuova leadership ha portato, finalmente, a superare alcuni impedimenti burocratici, a nuove trattative e infine nel 2018 l’Assemblea nazionale, il parlamento panamense, ha votato. Ed ecco subito un nuovo problema per i Naso: il presidente Juan Carlos Varela decise di mettere il veto. L’Assemblea approvò la comarca, ma il veto ne impedì la formazione. Il motivo del veto fu ambientale: il territorio rivendicato dai Naso, infatti, si sovrapponeva al Parco Internazionale La Amistad, un’area naturale protetta che si trova al confine tra Panama e Costarica.
Dopo lunghe trattative politiche la decisione della comarca passò dall’Assemblea alla Corte Suprema panamense. Nel 2020, infine, la decisione finale: i Naso hanno ottenuto il loro territorio, la loro comarca. Oltre 1600 chilometri quadrati di foreste, fiumi, ambienti diversissimi che non solo vanno protetti, monitorati e gestiti. Ma andranno probabilmente nuovamente difesi con gli strumenti della politica e della diplomazia in futuro.