La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Il divario di genere non è solo tra uomo e donna ma anche da magro o grasso. Essere magre aiuta le donne a diventare ricche. Perché le donne in sovrappeso, ingabbiate in uno standard secondo criteri di certo non medici sono pagate meno delle loro coetanee più magre.
Nel 1990, quindici anni dopo il suo Sorvegliare e punire, Gilles Deleuze si sentì in dovere di scrivere un Poscritto per aggiungere alla sequenza di società susseguitesi storicamente un «nuovo mostro»: la società di controllo che, come un «serpente», si stava insinuando «nel regime» di vita, «ma anche nella maniera di vivere e nei nostri rapporti con l’altro». Il filosofo ebbe cioè una precoce intuizione di quella che sarebbe diventata una realtà nota a tutti: un’esistenza non più strutturata intorno ai luoghi di potere (la famiglia, la scuola, la caserma, la fabbrica e, nel peggiore dei casi, il carcere), ma continuativamente monitorata dal potere. Un potere che ci insegue fino a casa, invadendo ogni angolo della nostra intimità.
Poche, direi pochissime, le nostre ribellioni – considerato che il meccanismo serpentino è pressoché accettato come se fosse normale. Perché? Perché l’illusione di libertà è forte. Anzi, pervasiva. Direte voi: «Ma no! Ma come! Siamo nell’era della rivendicazione dei diritti!». Ed è senz’altro vero: ora, perlomeno, parliamo. Ma siamo davvero liberi dalle «spire del serpente» – utilizzando l’espressione di Deleuze per descrivere la società del 1990 (che oggi – oso affermarlo – è peggiorata)?
Vi rispondo: noi donne no. Siamo bombardate (con parole, pubblicità, libri e persino leggi) dal diritto di emanciparci dalla vanità, dai tacchi, dai trucchi; di liberarci dei reggiseni; di affrancarci da esistenze definite dalla maternità; di essere chi vogliamo e della forma che preferiamo; di esprimere appieno la nostra sessualità. Eppure, è un’illusione. Lo è innanzitutto per un motivo banalmente lapalissiano, così come tutte le forme di ipocrisia: di fatto, siamo investite da domande come “e tu, non vuoi figli?” o, difronte a qualsiasi anelito di piacere, “non ti sembra di esagerare?”; oppure da affermazioni del tipo “sei troppo magra” o “stai benissimo! Sei dimagrita”.
Ma c’è una seconda motivazione per cui noi donne non siamo libere e, al contrario, siamo al di qua delle sbarre trasparenti di una prigione dorata, costruita intorno a noi da una società che ci controlla in modo molto subdolo, infilandosi nelle nostre vene.
L’ennesimo discorso femminista e moralista – direte voi. No, molto peggio – aggiungo io. L’idea che una donna intelligente e ambiziosa possa dimostrare il suo intelletto, la sua aspirazione, il suo talento, la sua cultura, senza prestare attenzione al suo corpo, alla sua forma fisica e alla sua sensualità non solo è difficile, ma è una vera e propria utopia. Una disgustosa e tragica utopia. A dichiararlo non sono io, ma i dati inquietanti sull’interazione tra il peso e il salario.
Secondo quanto riportato da diverse ricerche, diffuse da un dettagliato articolo dell’Economist, le donne ricche sono più magre di quelle povere; una proporzione non applicabile agli uomini, per i quali non si verifica questa variazione. Il divario di genere nella relazione tra reddito e peso non può essere affatto spiegato dalla differenza di impiego tra i due sessi, né da un improvviso dimagrimento del genere femminile più abbiente dovuto all’uso di creme miracolose o trattamenti estetici, ma da una semplice assioma: essere magre aiuta le donne a diventare ricche. Perché le donne in sovrappeso (ingabbiate in questo standard, secondo criteri di certo non medici) sono pagate meno delle loro coetanee più magre. Pensate che in America, in Gran Bretagna, in Canada e in Danimarca è stato registrato addirittura il 10% in meno del reddito.
Quindi – si legge nell’articolo dell’Economist – «le stime superiori del premio salariale per una donna magra sono così significative che sarebbe quasi altrettanto utile perdere peso che acquisire un’istruzione supplementare». Un’affermazione azzardata? No, considerato un altro dato raccapricciante: il premio salariale per il conseguimento di un master è di circa il 18%; ovvero solo 1,8 volte il premio che – teoricamente – una donna che soffre di obesità potrebbe guadagnare perdendo circa 30 kg.
Ovviamente, in questo drammatico meccanismo, non c’è alcuna consapevolezza delle cause del sovrappeso, che sono nella maggioranza dei casi sistemiche e non imputabili (come invece si crede, generalizzando) a golosità o pigrizia. Perché – ne sono testimone – c’è chi ha scartato un curriculum migliore sulla base di una fotografia, prevedendo che la presunta causa del sovrappeso – la svogliatezza – potesse essere applicata da quella donna anche a livello professionale. E altri che – ancora una volta, ne sono testimone – non volevano associare la loro immagine a persone poco gradevoli fisicamente (a loro parere).
Si aggiunga un altro dettaglio: le argomentazioni frequentemente addotte per spiegare le cause per cui le donne subiscano questa pressione relativa alla forma fisica o, qualora non riescano a raggiungerla, siano schiacciate dall’assenza di autostima, sono a dir poco aberranti. Questo perché una notevole quantità di persone (troppo rilevante per passare inosservata) sostiene che le donne magre siano tali perché aspirano a quell’ideale di bellezza cristallizzato negli schermi o nei cartelloni pubblicitari. Altri – i peggiori –, senza avere nemmeno la minima conoscenza dell’argomento, applicano l’etichetta di “disturbo alimentare” sui corpi il cui peso va al di sotto o al di sopra della loro asticella della normalità; e persino sulle bocche di coloro le quali rifiutano con determinazione o accettano con appetito un dolce.
Insomma, nella maggioranza dei casi non è applicata nessuna forma di coscienza critica sul tema, né fatta alcuna autocritica. Sono pochissime e rare le persone che riflettano su quanto essere in sovrappeso possa letteralmente costare, e non solo in termini psicologici; su quanto il dolore di esserlo (germinato da una presunta “colpa”) sia spesso insostenibile; o su quanto la pressione di non esserlo – di essere magre, anche volontariamente, ma secondo una coercizione universalmente accettata – lo sia altrettanto.
Quindi, qual è la via di uscita? Stanare il serpente – la società di controllo – di cui parla Deleuze? No, quello lo abbiamo già fatto. Anzi – ammettiamolo – abbiamo candidamente accolto il rettile come una realtà di fatto, oramai immutabile: basti pensare al nostro impassibile consenso di farci guardare e di guardarci, di farci controllare e di controllarci, come fossimo protagonisti di un gioco voyeuristico.
Di certo, io non ho nessuna soluzione. Posseggo solo molte domande che ho deciso orgogliosamente di mostrare, evitando di chiuderle a chiave con due mandate. D’altronde, statisticamente, è da queste che è sempre nato il cambiamento. Dunque, a voi le vostre.