La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Nel contesto lavorativo italiano rappresenta un ostacolo alla crescita di un’azienda. Attualmente, infatti, i residenti con 65 anni e più nel nostro Paese sono 12 milioni, un numero che, secondo l’Istat, salirà a 19 milioni nel 2024.
«Ho letto che i musicisti non vanno in pensione: smettono quando non hanno più musica dentro. Beh, io ho ancora musica in me e su questo non ho alcun dubbio». Questa frase è tratta da un film che ho visto ultimamente. Una di quelle commedie americane con una morale scontata da post su Instagram, che decidi di vedere – in preda alla febbre da imbarazzo della scelta – solo perché c’è Robert De Niro e ti fanno male le dita per i tre quarti d’ora di zapping.
Il film si chiama “Lo stagista inaspettato” e parla di un pensionato, Ben (De Niro), che decide di rimettersi in gioco e reinventarsi lavorativamente, ripartendo da uno stage in un’e-commerce di abbigliamento. Il resto della storia, probabilmente, ve lo siete già immaginato: l’uomo ha problemi a integrarsi a causa della differenza di età che c’è tra lui e gli altri dipendenti, ma alla fine – indovinate un po’ – riesce a fare breccia nel cuore dei colleghi e della CEO dell’azienda, diventando un punto di riferimento per tutti loro. Non vi nascondo che, nonostante abbia pensato «praticamente l’avrei potuta scrivere io», la pellicola mi ha particolarmente colpito e fornito un importante spunto di riflessione su una forma di discriminazione professionale molto diffusa ma di cui si parla ancora troppo poco: l’ageismo.
Il temine ageism viene coniato nel 1969 da un gerontologo statunitense, Robert Neil Butler, per indicare appunto la “discrimination against seniors” (la discriminazione verso i più anziani) in ambito sanitario, mediatico, sociale e professionale.
Come evidenzia uno studio condotto negli Stati Uniti, il 64% dei lavoratori tra i 45 e i 74 anni ha sperimentato una qualche forma di discriminazione legata all’età sul posto di lavoro. Un anziano su quattro, almeno una volta, non è stato assunto perché “troppo vecchio”. I senior, infatti, hanno solo un terzo di probabilità in più rispetto a un ragazzo di 28 anni con le stesse competenze di ottenere un colloquio di lavoro, e il doppio delle probabilità di rimanere disoccupate per due anni o più dopo un licenziamento. L’ageismo è un problema talmente diffuso che il 44% delle persone anziane ammette di aver alterato la propria età sul curriculum vitae per poter superare tali barriere.
Nel contesto lavorativo italiano, questa tipologia di discriminazione può davvero rappresentare un grande ostacolo alla crescita di un’azienda. Attualmente, infatti, i residenti con 65 anni e più nel nostro Paese sono 12 milioni, un numero che, secondo l’Istat, salirà a 19 milioni nel 2024.
Cosa dovrebbero fare quindi le aziende per non dimenticare che Diversity, Equity & Inclusion non sono solo belle parole? (Oltre, ovviamente, a evitare di scrivere negli annunci di lavoro che sono alla ricerca di un “nativo digitale.”)
Proprio come fa la CEO del nostro film, le aziende dovrebbero integrare attività a sostegno dei senior nelle loro politiche di Corporate Social Responsibility (CSR) attraverso:
Tutte le aziende nel nostro Paese dovrebbero muoversi nella stessa direzione per soddisfare i bisogni emergenti legati all’allungamento della vita e all’invecchiamento della popolazione, dando la possibilità di rimettersi in gioco a chi, come Ben, ha «ancora musica dentro».