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La riscossa dei dischi, che da poco hanno superato per vendite i compact disc, ha molti aspetti romantici ma un problema di sostenibilità ambientale.
La notizia è di qualche mese fa, attesa da tempo ma non per questo meno potente dal punto di vista simbolico. Nei primi tre mesi del 2021 le vendite del vinile hanno superato, in Italia, quelle dei cd. Un sorpasso che era nell’aria, ora finalmente incorniciato da cifre inequivocabili. Rispetto allo stesso periodo del 2020, il vinile ha incrementato del 121% il suo, chiamiamolo così, “fatturato”, laddove il compact disc ha perso il 6%. Numeri che, come sempre, vanno letti con disincanto e senso delle proporzioni.
Il supporto fisico, nell’era del dominio globale dello streaming, rappresenta meno del 20% del ricavo medio dell’industria musicale, sempre più virtuale e sempre più intangibile. E non c’è bisogno di essere premi Nobel in economia per capire che raddoppiare le vendite può anche voler dire passare da una a due copie. Con tutte le precauzioni del caso, comunque, la portata epocale della questione è evidente, soprattutto perché arriva a coronare una delle più improbabili resurrezioni e una delle parabole più contro-intuitive nella storia dei consumi culturali di massa. Il formato dato per spacciato trent’anni fa che torna dalla tomba, come gli zombie, prendendosi la sua rivincita sul rivale fighetto e futuristico, un po’ paninaro e così terribilmente anni 80, che a questo punto rischia di finire nella discarica degli oggetti obsoleti. In senso figurato, si intende.
Perché come ben sa chi vuole liberarsi della propria collezione di cd, sarà dura trovare un modo per smaltire in modo “pulito” quelle tonnellate di plasticaccia e di altri materiali non scomponibili e quindi non riciclabili. Beffardo e ecologicamente inquietante destino, per un supporto che avrebbe dovuto essere “eterno”. Ma attenzione: il vinile, il vecchio e caro (da intendere in tutti i sensi, viste le speculazioni che cavalcano la sua rinascita) padellone a 33 giri, siamo così sicuri che nel suo immacolato fascino vintage-analogico sia così amico del pianeta?
La realtà sembra un po’ più complessa e per niente rassicurante. Tenendo sempre ben presente che i volumi non sono proprio da catena di montaggio, perché parliamo pur sempre di una faccenda di nicchia e non più di massa come negli anni 60 e 70, la questione presenta diversi aspetti problematici. Tanto per cominciare il sistema di produzione dei vinili è anch’esso parecchio vintage, novecentesco per non dire addirittura ottocentesco, con tutto ciò che ne consegue in termini di inquinamento e di esposizione dei lavoratori a sostanze tossiche. Le fabbriche, quelle poche che hanno resistito alla riconversione degli anni 90, sono peraltro le stesse che rifornivano gli appassionati di vinile decenni fa. Stessi macchinari, stessi sistemi di sicurezza, stesse procedure.
Ma l’impatto ambientale dipende soprattutto dal materiale con cui sono fatti i dischi, il polivinilcloruro meglio conosciuto come PVC. Nell’epoca pionieristica dell’industria discografica, quando a dominare il mercato erano i 78 giri, il materiale utilizzato era la gommalacca. Negli anni 50, quando sull’onda del rock’n’roll nacque un nuovo mercato giovanile da alimentare a getto continuo, si passò al PVC (da qui il termine “vinile”) perché materiale più resistente e modellabile, meno caro e infiammabile, insomma l’ideale dal punto di vista di una industria nascente. Purtroppo il PVC deriva in parte dall’utilizzo di combustibili fossili, a cui venivano aggiunti per questioni di stabilizzazione altri materiali potenzialmente tossico-cancerogeni come piombo e cadmio. Oggi si è passati a stagno e zinco, ma diciamo che siamo ancora lontani da un archetipo di oggetto “green” probabilmente irraggiungibile.
Ma c’è chi è convinto che il ritorno del vinile possa nonostante tutto sposarsi alla nuova sensibilità ecologica. Proprio Green Vinyl Records è l’ottimistico nome che si è dato un cartello olandese di aziende produttrici di dischi. L’obiettivo è quello di rendere sostenibile il vinile, con meno rischi per l’ambiente (e per chi lavora alle presse) e meno consumo di energia. Tra le tecniche sperimentate si è dimostrata molto efficace quella dello stampaggio a iniezione, che riduce drasticamente gli sprechi e aumenta il grado di riciclabilità, senza compromettere (troppo) durabilità e qualità della resa sonora. C’è di buono che l’uso della plastica è quasi del tutto assente, e va comunque sempre ricordato che la produzione di dischi incide per meno dell’1% sulla diffusione mondiale di PVC. Insomma, niente che metta a rischio di catastrofe il pianeta, ma quello che conta è ovviamente il principio.
D’altra parte, se rimanere romanticamente ancorati alla fisicità della musica e dei suoi supporti comporta qualche rischio ecologico, va detto che anche lo streaming non è esattamente la più “verde” delle opzioni. I miliardi di file audio che ascoltiamo quotidianamente richiedono di essere caricati, stoccati e diffusi da server che consumano altissime quantità di energia, e i device con cui li ascoltiamo (anche in questo caso lo smartphone è sempre più protagonista assoluto) sono deperibili e difficili da riciclare. Al contrario di un buon giradischi, che può durare decenni e consuma poca energia.
Alla fine, l’aspetto più ecologico della passione per il vinile è proprio legato al suo ciclo di vita. Che in fondo è quello della memoria e dei sentimenti. Le collezioni di vinili non andranno mai perdute in qualche discarica, come succederà ai cd nei prossimi anni. Girano, viaggiano, passano da un malato di musica all’altro e da una generazione all’altra. E forse l’unico vero impatto ambientale irrisolvibile è relativo allo spazio che occupano in casa.