Adattarsi al clima: le città cambiano colore
Le aree urbane risentono più delle aree rurali del surriscaldamento globale. Il cosiddetto “effetto isola di calore” può aumentare le temperature di 4-5 gradi centigr
Sarà ancora l’uomo a muovere il capitalismo, o lo farà la natura? All’orizzonte c’è però un investitore di maggioranza silenzioso e ingombrante. Un investitore escluso, a cui non si è ancora dato spazio.
Per anni il sistema economico ha cercato di re-distribuire ruoli e responsabilità tra i vari soggetti che lo compongono, dagli industriali ai sindacati, dagli operai alle comunità, dai fornitori ai clienti, fino agli investitori.
All’orizzonte c’è però un investitore di maggioranza silenzioso e ingombrante. Un investitore escluso, a cui non si è ancora dato spazio.
E che ora lo rivendica alzando la voce e provocando conseguenze irreversibili per il futuro dell’economia.
Con lo stress da acqua, e creando una diffusa emergenza nella food economy, oggi l’ambiente sta violentemente reclamando una voce nelle decisioni economiche.
Sta rivendicando la proprietà ultima delle risorse che le imprese utilizzano per realizzare prodotti, infrastrutture, e ogni tipo di consumo.
Siccità o allagamenti, tempeste o uragani e alte temperature sono solo alcune delle modalità con cui la natura bussa alla porta del business, consegnandogli un pacco pieno di perdite economiche. Escluderla dal tavolo degli affari per così tanto tempo è stato estremamente dispendioso, e sta portando una catena di conseguenze negative.
Il progressivo riscaldamento globale, per esempio, è uno dei modi recenti con cui sta sbattendo i pugni sul tavolo, rendendo sempre più precarie le modalità con cui l’economia funziona.
Dunque, quanto costa escludere la natura dal tavolo delle decisioni economiche? Secondo uno studio dell’agenzia di rating S&P Global realizzato su 135 paesi, l’impatto del cambiamento climatico sull’economia entro una trentina d’anni corrisponderebbe a una perdita annua del 4% del PIL globale. Fino ad oggi, fare affari con l’ambiente, è stata una partita dove qualcuno ha vinto in maniera schiacciante, e qualcun altro ha perso.
Risorse energetiche, terra e suolo, acqua, paesaggio, minerali: l’uomo ha tolto alla natura, considerandola un contraente impotente, che offriva tutto gratis.
In questo continuo rapporto tra uomo e ambiente si è sviluppato il capitalismo. Nel suo percorso evolutivo, ha difeso il famoso valore per gli azionisti (shareholder) mettendo al primo posto il profitto.
In una seconda fase – specialmente nei paesi del Nord Europa – ha fatto posto al valore prodotto per le persone che in qualche modo entrano in contatto con esso partecipandovi direttamente o indirettamente (stakeholder).
Natura ed ambiente non hanno mai partecipato a questa evoluzione, che ora è un passaggio così obbligato per l’economia globale da essere al centro di un libro promosso dal World Economico Forum, proprio dal titolo Stakeholder Capitalism: A Global Economy that Works for Progress, People and Planet.
E cosa c’è di nuovo in questa visione dell’economia? Uno degli azionisti da prendere in considerazione, e far sedere al tavolo delle decisioni è proprio il pianeta.
La terra partecipa da sempre alle attività della nostra impresa economica come un socio che conferisce beni in natura, attraverso tutte le sue risorse.
Per questo bisogna mettere una poltrona per l’ambiente in ogni Cda. Escluderlo sta diventando ipocrita, complicato ed anche costoso, perché le decisioni prese in azienda gli riguardano ogni giorno di più.
A oggi non è ancora un azionista di maggioranza, ma ha dimostrato recentemente di poter condizionare il destino delle nostre imprese in maniera stravolgente.
Per la prima volta, quindi, si chiede all’economia di rappresentare interessi non umani.
Clienti, fornitori, dipendenti, comunità vicine e lontane di ogni settore che si sono costituite in interessi economici, ora hanno l’obbligo di far entrare nella stanza dei bottoni anche l’ambiente. Che però non ha voce, capacità critica, diritto di voto o di veto. E come sarà possibile per esso influenzare le decisioni che riguardano lo sfruttamento delle sue risorse e dei suoi materiali, l’impatto su di esso di catene di fornitura, logistica, trasporti e infrastrutture?
Come gli sarebbe possibile allineare gli interessi dell’impresa con i suoi, che puntano alla conservazione, alla riduzione dell’impatto su paesaggio e aria? Come è possibile dare voce ad un azionista muto?
In un Cda immaginario fatto in questo modo, infatti, avremmo una netta divisione di interessi, con l’ambiente che si troverebbe cronicamente a votare contro.
Due elementi ci potrebbero però aiutare: