La società dei poli opposti
L’inondazione di Valencia ha ben evidenziato i pericoli di una gestione territoriale in cui pochissimi erano decisori e concentrati su altri obbiettivi, mentre i molti, e veri co
Come rispondere alla domanda seguendo l’esempio di Scott Galloway, imprenditore e docente, e Mihály Csíkszentmihályi, psicologo ungherese.
Tra gli argomenti che più accendono le persone di ogni età si erge il grande classico: «Devo inseguire il mio talento o la mia passione?».
Esistono persone fortunate che hanno trovato senza grandi fatiche una passione in cui esprimere il proprio talento, ma si tratta più di eccezioni che della norma.
Quante volte ci siamo trovati o ci troveremo a un certo punto della vita a voler fare qualcosa in cui non sembriamo eccellere? O all’inverso, di risultare portati in qualcosa che non ci fa impazzire? Per questo, la domanda di cui sopra scatena dibattiti e causa mal di pancia.
Cosa fare in questi casi? Forse può essere utile tornare alla prima domanda e formularla volutamente male, come farebbe un bambino: «È più importante il talento o è più importante la passione?».
Prendiamo due autori di successo che la vedono in modo antitetico. Il primo è Scott Galloway, imprenditore seriale e docente acclamato in diverse Business School. Il secondo è lo psicologo ungherese Mihály Csíkszentmihályi.
Dopo aver raccolto molte testimonianze, aver letto e ascoltato l’opinione di tantissime persone, credo che abbiano in parte ragione e in parte torto entrambi. Sebbene uno dei due abbia ragione un po’ più frequentemente dell’altro.
La via da scegliere dipende da diverse componenti, a partire da quelle caratteriali e culturali che ci caratterizzano. Gli stessi Scott e Mihály, in questo, sono figli delle loro storie.
Scavando nella sua biografia e tra le sue interviste, risulta lampante come Scott abbia lottato tutta la vita con i denti su qualsiasi obiettivo raggiunto, piccolo o grande che fosse. È statunitense fino al midollo, cultura ammantata dalla ricerca spasmodica dei risultati, la terra degli imprenditori, dove dimostrare a sé stessi e agli altri di valere qualcosa significa quasi sempre avere successo. Dove l’asticella del “volere è potere”, sebbene non assoluta, si posiziona molto più in alto che nel resto del mondo: trova qualcosa in cui sei bravo, sbattiti come un demonio, e dei risultati arriveranno. Sii operoso, sii ambizioso, e sarai un bravo americano. In cui se devi scegliere tra carriera e vita privata, è normale puntare alla prima: «Oggi ho un buon equilibrio» afferma Scott «perché non l’ho avuto a venti e a trent’anni. A parte la business school, dai ventidue ai trentaquattro ricordo di aver lavorato e fatto poco altro. Il mondo non appartiene ai grandi, ma ai veloci. Dovete puntare ad arrivare più lontano degli altri in meno tempo. (…) Il mio mancato equilibrio quand’ero un giovane professionista mi è costato i capelli, il primo matrimonio e probabilmente il decennio dai venti ai trenta. E ne è valsa la pena».
Ne vale davvero la pena?
Se le parole di Scott vi risuonano dentro facendovi dire «accidenti, ha detto semplicemente la verità!», il mio consiglio è di allenare senza indugi il vostro talento.
Se invece nel leggerle avete storto la bocca, percependo un sottile fastidio, non seguitele. Per voi no, non ne vale la pena. Virate verso Mihàly.
Anche lo psicologo ungherese ha vissuto buona parte della sua vita negli Stati Uniti, dove emigrò a 22 anni, ma visse per diversi periodi in diverse città d’Italia, Paese che amava e in cui strinse amicizie profonde con persone molto diverse tra loro. La sua attitudine verso ciò che lo soddisfa riflette influenze mediterranee: ogni suo scritto riverbera di diffidenza sulla ricerca del successo a discapito di un appassionante godimento e del diritto alla serenità. In Italia, lo sappiamo bene, non è tanto il “volere è potere” a dominare l’immaginario collettivo, quanto il godere è dovere.
Un esperimento del 1987 guarda proprio in questa direzione, e sembra ribaltare la questione in modo dirompente a favore della passione. Il ricercatore Eugene Griessman intervistò persone rinomate nei campi più disparati. Tra di esse, alcune compilarono un questionario in cui si chiese di dare un punteggio da 1 a 10 su 33 caratteristiche personali, quali la creatività, la competenza e l’ampiezza della cultura, secondo l’importanza che avevano rivestito ai fini del loro successo.
Una caratteristica spiccò in modo trasversale tra le altre: il benessere interiore provato al lavoro svolgendo la propria attività, che ricevette in media un punteggio di 9,86. In pratica, tutti questi professionisti ebbero grande successo proprio perché si muovevano in qualcosa che gli piaceva davvero. Senza un coinvolgimento appassionante potrete diventare bravi, anche molto bravi. Ma le ricerche sembrano dimostrare che non sarete mai dei fuoriclasse. Persegui qualcosa che non ti piace e non ti appartiene, e il talento non ti basterà. Ti mancherà un ingrediente fondamentale.
Non solo: molti scienziati che fecero scoperte importanti e vennero poi insigniti di premi prestigiosi quali il Nobel, descrissero spesso il loro ambiente come un gioco, un gioco interessantissimo da giocare.
Albert A. Michelson è stato il primo cittadino degli Stati Uniti insignito di un Nobel per le scienze. Verso la fine della sua vita, gli chiesero perché avesse dedicato così tanto tempo alla misurazione della velocità della luce. Si dice che allargò le labbra in un sorriso e rispose: «Era molto divertente».
Ne ricaviamo due conclusioni. La prima ovvia, la seconda meno.
E qui sta il punto: è possibile? Se mi incaponisco a fare qualcosa solo perché mi piace non commetto un errore? Non mi sto comportando da viziato, da irresponsabile? Non sto prendendo la strada più facile?
Ma a pensarci bene, chi ha detto che si debba per forza scegliere?
A ben vedere, passioni e talenti possono aiutarsi a vicenda. Possono contaminarsi.
… Ma questa, è un’altra storia.