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La foresta dell'Amazzonia brucia: non è una novità, in media negli ultimi decenni si è sottratto all’ecosistema locale che più nutre e stabilizza l’ecosistema globale l’equivalente annuale della superficie lombarda. Perché ora è diverso.
La foresta dell’ Amazzonia brucia: non è una novità, in media negli ultimi decenni si è sottratto all’ecosistema locale che più nutre e stabilizza l’ecosistema globale l’equivalente annuale della superficie lombarda. Perché ora è diverso.
La foresta dell’ Amazzonia quest’anno brucia di più (83% in più rispetto al 2018). Un’eccezione e poi tutto tornerà nella – sia pur predatoria – ma tranquillizzante normalità? Non sembra purtroppo il futuro più probabile. Si è molto discusso di colpevoli, interessi, e complotti dietro l’immane volume di fiamme del 2019, ma non è questo il punto: l’Amazzonia, assieme a ogni altro habitat, è sempre più fragile e indifesa, sempre più deprivata di anticorpi da un sistema planetario ormai sregolato in cui gli organismi viventi hanno sempre più difficoltà a rimanere salutari e vitali, ad autoproteggersi; e si sa… se dai un pugno a un pugile è una cosa, ma basta uno schiaffetto per mettere in ginocchio un malato indebolito. E infatti brucia anche, come mai prima, la foresta boreale delle latitudini settentrionali: anche lei ha la febbre planetaria e, indebolita, brucia anche se nessuno pianifica di coltivarvi soia OGM.
Per qualche motivo, in un panorama di generale crollo degli habitat – oceani, zone umide, montagne, tutte allo stremo – l’Amazzonia ci attrae di più. Semplificando al massimo, ci sono due grandi tipi di foreste: quella tropicale come l’Amazzonia, che colpisce la nostra immaginazione perché è campionessa di biodiversità, un ricettacolo di meravigliosa varietà; e poi c’è la foresta delle zone più fredde, un po’ più monotona e uniforme, che ci fa sognare di meno. Ma queste foreste di muschi, felci, betulle e conifere, anche se non sono campionesse di biodiversità, sono stra-campionesse di biomassa. Quando bruciano il danno al clima – non meno importante della perdita di diversità biologica – è molto maggiore, anche perché è maggiore la quantità di CO2 e particolato rilasciati in aria.
Allora, tocca proteggere tutti questi habitat: l’alternativa è il collasso generale del sistema che ci dà la vita. Ma a chi tocca cambiare? Di chi è l’Amazzonia? Di chi è l’Alaska? E la California? Gli oceani? Il Borneo? Alcuni di questi ecosistemi sono in tutto o in parte soggetti alla sovranità degli Stati. E si fa presto a opporre agli Stati – presi da un sacro impeto di salvezza globale – principi come “patrimonio comune dell’umanità” e a urlare che il loro abuso dei loro territori lo paga tutto il genere umano. Ma vogliamo ricordarci da dove nasce la strenua difesa della sovranità sul territorio da parte degli Stati? Le nazioni ricche l’hanno sempre esercitata la sovranità esclusiva sui loro territori, e in molti casi in maniera distruttiva. Quelli poveri, sono arrivati a vedersela riconosciuta a livello internazionale alla fine di un faticoso processo di decolonizzazione, a partire dalla “Dichiarazione sulla sovranità permanente sulle risorse naturali” adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1962. Hanno torto a rivendicarla e difenderla? È facile essere universalisti da ricchi, e la sovranità si può pure cedere in nome di un bene superiore e planetario, ma solo se siamo tutti sullo stesso piano.
Quindi? Malgrado tutto ciò credo e affermo che le foreste, gli oceani, i ghiacciai e le paludi sono patrimonio comune dell’umanità. Ma in un modo diverso: indiscutibile la sovranità sugli usi da parte di chi ci abita, è una questione di giustizia. Allora vuol dire che non ci si può intromettere? Non possiamo fare nulla per l’Amazzonia se non siamo brasiliani? È una questione fondamentale, poiché ad essa si lega l’unica speranza di salvare l’ecosistema al collasso. La natura è certamente patrimonio comune dell’umanità senza frontiere, ma prima di esserlo come diritto di tutti – e senza ledere le sovranità di nessuno – lo è come responsabilità di tutti.
Forse qualcuno localmente avrà acceso dei fuochi – ma chi ha appiccato l’inedito incendio delle foreste dell’Alberta, in Canada, pochi anni fa? – spinto dalla cupidigia o più spesso dalla povertà. Però, chi crea le motivazioni economiche che rendono conveniente bruciare un ettaro di foresta per farci olio, semi o altro? Non sarai forse tu? Se la natura è di tutti, la responsabilità è di tutti. Mangiamo meno carne e vedrete che verrà meno l’interesse di mercato a distruggere foreste e popoli indigeni. Non cambiamo gadget elettronici continuamente, e le cicatrici umane e ambientali dell’estrazione di coltan e litio diminuiranno. Quando saremo tutti consapevoli della nostra personale responsabilità di proteggere la natura, di quanto ogni nostra scelta può fare la differenza senza confini, inizierò anch’io a rivendicare che ho voce in capitolo per decidere cosa ne facciamo dell’Amazzonia. Se lo facessi sui social, dal mio nuovissimo cellulare e davanti alla sesta porzione di carne rossa questa settimana, sarei come l’evasore fiscale che si lamenta del servizio sanitario pubblico. Ambientalisti, Fridays, amici: non c’è più tempo per rivendicare, è ora di cambiare. Io prima di chiunque altro.