Malattia e social: tra condivisione e disinformazione

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Malattia e social: tra condivisione e disinformazione

Dalle storie di Bianca Balti e Fedez all’attivismo digitale dei pazienti: come i social network stanno cambiando il modo di vivere, comunicare e comprendere la malattia nell’era della connessione continua

Da Bianca Balti, che ha rivelato il tumore che l’ha colpita, a Fedez, sono sempre più numerosi i personaggi noti che sui social raccontano i propri problemi di salute. Ma la condivisione è un bene, perché aiuta a contrastare l’isolamento dei malati, o una forma di esibizionismo che non cambia la condizione dei pazienti? Ne parliamo con Cinzia Pozzi, giornalista scientifica e autrice di#MALATI. Come è cambiato il nostro modo di stare male (o bene) nell’era dei social network (Codice edizioni)

Suo nonno provava vergogna per la sua malattia e la teneva nascosta. Oggi, invece, siamo nell’era delle “stories di malattia”. Perché la malattia, da qualcosa di privato, è diventata un argomento pubblico?
Per più motivi legati ai progressi della medicina, che rendono possibile la guarigione, e all’allungamento della nostra aspettativa di vita. Se pensiamo al cancro oggi ci sono molte persone che convivono per tanti anni con una malattia oncologica. E questi progressi hanno cambiato anche il modo con cui viviamo la patologia, che ora è più controllabile. Il fatto di riuscire a conviverci fa sì che la malattia sia un’esperienza che entra a far parte della tua vita e che, come tale, vada raccontata, anche per guardarla con più distacco, da un’altra prospettiva. In parallelo con l’avanzamento delle terapie, è nato un genere letterario, la patografia, appunto il raccontare della malattia che negli ultimi decenni si è evoluto sfociando su tutti i mezzi comunicazione alla nostra portata.

Nel suo libro sono citati gli studi di Stephen A. Rains, che insegna comunicazione presso l’Università dell’Arizona, secondo i quali non esiste un paziente-utente tipo che naviga e si racconta in rete. È così? Sì, ci sono molte differenze all’interno di questo mare magnum di persone che postano e cercano contenuti di ambito medico. La community dei malati è eterogenea e la maggior parte di essi sono passivi, sono persone cioè che leggono e si informano anche dai racconti degli altri, ma che non condividono la malattia. Poi ci sono anche persone più attive, che si raccontano con i social e poi quelli che invece vogliono far divulgazione, e infine coloro che fanno attivismo sanitario digitale. Lo scenario è in evoluzione e queste figure interagiscono tra di loro o a volte si sovrappongono, quando uno stesso utente e passa da un ruolo all’altro in base alle proprie esigenze.

Ma a quale bisogno risponde chi condivide la sua malattia?
Contrariamente all’opinione di molti, non lo si fa per esibizionismo, ma per il desiderio di mettere un punto fermo nella propria storia e per capire chi si è diventati con la malattia. Solo che, se un tempo, in casi come quello di Wondy, si poteva essere letti da tante persone e mantenere una certa riservatezza, ora è un po’ improbabile restare anonimi. Un’altra variabile è la reazione di chi ti segue: pensiamo alla controversia su Nadia Toffa, che è stata molto criticata dai malati di tumore, rispetto all’incoraggiamento unanime per Bianca Balti. Un tempo il pubblico non era pronto a questo tipo di comunicazione, che ora è vista prevalentemente in chiave positiva.

Oggi le “storie di malattia” generano visualizzazioni e possano portare guadagni. Lei come giudica questa monetizzazione da parte degli stessi malati? Tendo a non demonizzare la possibilità di avere un piccolo guadagno da un’attività che si fa sui social e che magari prende tanto tempo. Il presupposto infatti è che si viene ricompensati perché si produce qualcosa di valore. Perciò, se un’azienda del comparto salute riconosce la validità dei contenuti di un content creator affetto da una patologia non ci vedo nulla di male a retribuirlo, purché ci sia trasparenza nella gestione di questa collaborazione. Inoltre, va tenuto conto che molti malati giocoforza non lavorano e quindi che l’impegno sui social per molti può anche tradursi nell’unica opportunità di avere un guadagno. Diverso il discorso per le aziende, perché il tema dell’influencer marketing va regolato un po’ meglio: molte società attivano collaborazioni soltanto in base al numero di follower, senza pensare minimamente al tipo di contenuti che quell’utente veicola. Un caso celebre è quello di una ragazza molto seguita perché parla di disturbi del comportamento alimentare online, cui è stato chiesto di fare da testimonial per un brand di occhiali da sole, banalizzando il suo messaggio.

Se ci informiamo online sulle cure e le patologie, come evitiamo la disinformazione che già domina qualunque altro settore e che nel campo della salute è particolarmente pericolosa? Il campo della salute non è diverso da qualunque altro.La polarizzazione del dibattito tra chi sostiene una tesi e quella opposta creano delle bolle in cui si diffondono falsità. Basti pensare che, in un momento storico post pandemico, in cui sappiamo il valore dei vaccini, siamo ancora vittime di studi, poi ritirati dal mondo accademico, che associavano ai vaccini l’autismo.

Bisognerebbe che ogni utente avesse una sufficiente alfabetizzazione sanitaria digitale in modo da muoversi con più consapevolezza tri siti e fonti eterogenei. Questa abilità è ancora più importante quando si è vulnerabili per una malattia e dunque più inclini a credere a soluzioni miracolose. Un’altra buona pratica è quella di accedere sì all’ambiente digitale, come punto di scambio ed interazione con altri pazienti, purché non venga meno la costruzione del rapporto con la figura di riferimento nell’ambiente sanitario. In altre parole, il paziente può prepararsi e informarsi, ma poi deve chiedere al proprio medico di fiducia se è vero quello che ha letto e confrontarsi con i sanitari. Ecco, il senso del mio libro è quello di mettere sul tavolo sia i vantaggi sia i pericoli della mole di informazioni che si trova online.

Poco fa lei ha citato l’”attivismo digitale”, ovvero la mobilitazione online dei malati per sensibilizzare sulle loro patologie. Questo impegno è efficace per migliorare i servizi sanitari o resta un modo per ottenere visibilità, senza risultati concreti? Permalattie “misconosciute”, come la vulvodinia, la discussione online è stata fondamentale per aumentare la consapevolezza e oggi sul tema è stata perfino presentata una proposta di legge. Tuttavia, servono altri studi per fare un bilancio del fenomeno. L’attivismo sanitario digitale, che è una naturale conseguenza dell’aggregazione degli utenti online, funziona se non crea soltanto rumore suisocial,bensì se esce dalla dimensione online e instaura un dialogo con il mondo sanitario, perché altrimenti quest’ultimo ignora totalmente quello che accade online. Bisogna mollare un po’ lo smartphone e relazionarsi con l’ambiente sanitario trovando un punto di incontro tra difficoltà dei medici e rivendicazioni dei malati.

Molti medici guardano con sospetto al paziente che si informa da solo, temendo il “Dottor Google”. La nostra abitudine di cercare i sintomi online complica il rapporto con i medici o tradisce una mancanza di ascolto da parte dei medici?
Sono molto critica verso questo fastidio da parte dei medici nei confronti di internet. Perché non dovrei informarmi su qualcosa che mi riguarda? I medici sono rimasti sicuramente spiazzati dall’avvento del web: l’hanno sottovalutato e il web ha rivelato le carenze dal punto di vista della comunicazione della classe medica. D’altra parte, a Medicina non ci sono dei corsi per imparare a dialogare con i pazienti né a divulgare online contenuti scientifici e i medici vanno un po’ in ordine sparso.

Credo però che si potrebbe fare qualcosa in più che raccomandare ai pazienti di non andare a cercare informazioni online. Al contrario un atteggiamento più collaborativo del medico con chi ha già cercato informazioni online, può aprire un dialogo tra due soggetti che ora faticano a capirsi. Questo è fondamentale perché i social non possono essere l’unico mezzo con cui ci informiamo sulla nostra salute.

Il suo libro analizza le tante sfide della condivisione, dall’uscita dall’isolamento al rischio della disinformazione. Ma, alla fine, facciamo bene o male a condividere le nostre patologie sui social network?
Non esiste una risposta valida per tutti. Nel mio libro ho raccontato solo nelle ultime pagine di avere una malattia rara perché non volevo influenzare il giudizio del lettore. Io stessa non so come mi sarei comportata se, diagnosticata in giovane età, ci fossero stati i social odierni. Sicuramente l’approccio corretto è quello di conoscere il mezzo che si sta usando e valutare individualmente i potenziali benefici, ma anche i rischi che si corrono a esporsi online

In questo momento i due settori sono distanti e in cui ci sono delle idee abbastanza polarizzate: da un lato c’è un grande risentimento da parte di dei pazienti, che non hanno trovato nell’ambiente accoglienza e ascolto; dall’altro c’è un settore sanitario oberato e in crisi che demonizza tutto quello che accade online e quindi fa un po’ muro. Ecco, se da entrambe le parti si iniziasse un po’ a dialogare, forse i pazienti se ne gioverebbero e i medici farebbero meno fatica a farsi ascoltare.

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Mantovana, giornalista da oltre 15 anni in Mondadori, collabora a numerose riviste nazionali su temi di attualità e stili di vita. Ha collaborato a una monografia sul cinema di Steven Spielberg e curato la traduzione dall’inglese di un saggio sul Welfare State. ​