CBAM: chi inquina, paga davvero?

Il cambiamento climatico richiede azioni decise e coordinate, e l’Unione Europea ha risposto con un meccanismo innovativo: il CBAM, acronimo di Carbon Border Adjustment Mechanism
Il gigante silenzioso è diventato il terreno più ambito per le sue risorse naturali. Ma la domanda vera non è se sfruttare o meno le risorse dell’isola. Ma come farlo senza distruggere ciò che resta.
Fino a qualche anno fa, la Groenlandia era poco più di un nome su una mappa: l’isola più grande del mondo, remota, inospitale, quasi disabitata. Poi, qualcosa è cambiato. Prima le dichiarazioni, poi le intenzioni esplicite: l’interesse degli Stati Uniti per l’acquisto della Groenlandia – iniziato nel 2019 durante il primo mandato di Donald Trump – ha riacceso i riflettori su questa terra tanto periferica quanto strategica. Ma al di là delle mosse geopolitiche, la vera domanda resta: perché proprio la Groenlandia? Cosa ha da offrire un territorio ghiacciato e quasi privo di abitanti? La risposta non sta solo nella geografia – tra l’Atlantico e l’Artico, tra Europa e America – ma nel cuore stesso del cambiamento climatico e delle sfide ambientali e tecnologiche dei prossimi decenni.
La Groenlandia è seduta sopra un tesoro. Un tesoro fatto di elementi chimici fondamentali per la produzione tecnologica moderna: terre rare, nickel, uranio, titanio. Elementi che servono per costruire batterie per veicoli elettrici, turbine eoliche, smartphone, pannelli solari. Elementi che servono, insomma, per alimentare la transizione energetica.
Secondo il Dipartimento di Stato americano, l’isola contiene riserve di almeno 43 dei 50 materiali critici per l’industria USA. In altre parole, è uno dei pochi luoghi sulla Terra in grado di intaccare il monopolio cinese nell’estrazione e lavorazione di questi materiali. Una possibilità che, da sola, basta a spostare l’asse degli equilibri geopolitici globali.
Ma questa è una storia che non parla solo di risorse e potere. Parla anche di ghiaccio. Perché per accedere a quelle ricchezze sotterranee, la Groenlandia ha bisogno che il ghiaccio si sciolga. E questo sta già accadendo.
Ogni giorno l’isola perde circa 720 milioni di tonnellate di ghiaccio – 30 milioni ogni ora. Una media che, nel nord della Groenlandia, cresce quattro volte più velocemente della media globale. Il cambiamento climatico non è un’ipotesi futura: è un processo in corso, visibile, misurabile.
Ed è proprio questo paradosso a renderla così centrale: le stesse condizioni che la rendono accessibile – il riscaldamento globale, lo scioglimento della calotta glaciale – sono anche la minaccia più grave per il suo fragile ecosistema.
Costruire miniere, porti e strade in un ambiente tanto delicato richiederebbe uno sforzo infrastrutturale colossale. Ma soprattutto, significherebbe mettere a rischio uno dei pochi ecosistemi artici rimasti relativamente intatti. Ed è qui che entrano in gioco gli abitanti della Groenlandia: il 90% della popolazione è indigena, profondamente legata a un’economia di sussistenza che ruota intorno alla pesca e al rispetto della natura.
Gli abitanti non sono contrari allo sviluppo, ma pongono limiti chiari: sì allo sfruttamento delle risorse, ma solo se compatibile con la tutela ambientale e con il rispetto della biodiversità. Una voce che rischia, però, di rimanere inascoltata se il valore strategico dell’isola continuerà a crescere.
Ma non è tutto. Lo scioglimento dei ghiacci artici sta aprendo una nuova via commerciale: la cosiddetta “rotta marittima del Nord”. Una rotta che attraversa le coste russe e sfrutta il passaggio a Nord-Est, rendendo possibile – e più veloce – il trasporto di merci dall’Asia all’Occidente. Una rotta che, fino a pochi anni fa, era impraticabile.
Controllare la Groenlandia significherebbe anche controllare una parte di questa nuova arteria commerciale, destinata a diventare cruciale nei prossimi anni per il commercio globale. E ancora una volta, il cuore della questione torna lì: a un’isola gelida e lontana, che si è ritrovata improvvisamente al centro del mondo.
La Groenlandia è più di un luogo geografico: è un crocevia tra ambiente, economia e geopolitica. Un laboratorio a cielo aperto per osservare gli effetti del cambiamento climatico. Una miniera a cielo aperto per l’industria tecnologica. E forse, anche un banco di prova per un nuovo modello di sviluppo sostenibile. Perché la domanda vera non è se sfruttare o meno le risorse dell’isola. Ma come farlo senza distruggere ciò che resta.