Come si passa all’azione

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Come si passa all’azione

Cosa ci spinge ad agire in un contesto sociale che mostra persone in difficoltà e in evidente stato di bisogno? Cosa ci spinge a cambiare le cose che ci circondano? Un saggio della psicologa Catherin A. Sanderson risponde in maniera efficace.

In queste settimane, mi capita spesso di interrogarmi mentre scrollo sui social tra video e notizie: come cittadino che si ritiene mediamente informato e mosso da un certo civismo, sto facendo abbastanza per impegnarmi socialmente di fronte agli eventi che accadono intorno a me con tragica quotidianità? Penso alle immagini da Gaza, così come a quelle dell’Ucraina che sembrano passate un po’ in secondo piano. E viene in mente in un balzo introspettivo quell’episodio in metro in cui hai visto una persona sdraiata a terra, forse sotto l’effetto del consumo di alcol, o in difficoltà per il freddo. Ti sei guardato intorno alla ricerca di sguardi simili e dell’incentivo a fare qualcosa.

Cosa ci spinge ad agire nel contesto sociale

Sul tema ci sono centinaia di pagine di studi di psicologia sociale al cosiddetto bystander effect, l’apatia degli astanti che non intervengono rapidamente, quando si trovano in gruppo e vedono che accade un incidente. C’è un libro, tuttavia, che non può rispondere al tema una volta per tutte, ma che senz’altro aiuta a farsi qualche domanda giusta e fornisce molti strumenti per capire il contesto in cui, a livello individuale, conduciamo le nostre esistenze di animali sociali che si aggregano in comunità. How we act: turning bystanders into moral rebels (Come agiamo: trasformare un osservatore apatico in un ribelle morale) di Catherin A. Sanderson, psicologa dell’Amherst College, è un saggio da aggiungere allo scaffale degli attrezzi.

Si tratta di un libro che innanzitutto fornisce moltissimi riferimenti bibliografici a studi di scienze sociali e psicologia che si sono occupati proprio dei meccanismi comportamentali che portano una persona ad agire in contesti di gruppo, con più di un’incursione nella letteratura neuroscientifica anche per mostrare come, quando scegliamo un comportamento in una situazione di difficoltà, sensazioni di esclusione sociale, di ingiustizia o la semplice osservazione passiva della violenza attivano parti del cervello che sono le stesse più sollecitate quando proviamo dolore fisico.

C’è un’epidemia dell’indifferenza sociale?

La ricchezza di riferimenti scientifici del saggio di Sanderson rafforza un quadro che, capitolo dopo capitolo, riesce a investigare da un punto di vista della singola persona perché, in determinate circostanze, rimaniamo passivamente ad osservare una situazione che non ci piace. Rispetto dell’autorità, disciplina, norme sociali disattese, paura: sono tutti elementi che giocano un ruolo, ma Sanderson ha il merito di guidare chi legge, con dovizia di evidenze, verso un’osservazione non banale: molto spesso chi osserva passivamente non approva ciò che ha visto.
Non è una giustificazione morale, ma un’osservazione microsociale di grande importanza. Non è che ci sia un’epidemia di indifferenza sociale da curare o una cultura individualistica che disinnesca l’azione.
Semmai è la tendenza umana a conformarsi al gruppo unita a quella che, in psicologia, prende il nome di ignoranza pluralistica: sono tutte quelle situazioni in cui vorremmo fare qualcosa e decidiamo di rimanere in silenzio o inerti perché male interpretiamo, attorno a noi, le idee o le sensazioni dei nostri pari.
Per fare un esempio classico, è come quando sei in aula e un’insegnante spiega un concetto difficile. Avresti bisogno che ripetesse ma non alzi la mano perché nessuno attorno a te lo fa e pensi, dunque, di essere stupido e di non avere capito, quando è invece possibile che i tuoi compagni stiano facendo il medesimo pensiero.

Le persone non agiscono perché non sanno

Sanderson mostra con dati ed esperimenti che c’è una verità da sfruttare: le persone non agiscono, spesso, non perché approvano un comportamento violento o un’ingiustizia, ma perché non hanno tutte le informazioni disponibili su cosa fare o perché la loro percezione dell’atteggiamento sociale è distorta rispetto alla realtà.
Non sorprende dunque che, nei capitoli in cui si parla di contrasto al bullismo, alle molestie sessuali, al razzismo o alla prevaricazione sul luogo di lavoro, diversi programmi efficaci implementati in svariati contesti (scuole, aziende, associazioni) si basano proprio, innanzitutto, sul mettere le persone nelle condizioni di avere la percezione corretta della norma sociale.

I ribelli morali battono l’inerzia

Gli ultimi due capitoli del saggio di Sanderson sono uno sguardo concreto a cosa si può fare per aumentare il numero di “ribelli morali”, le persone che, autonomamente, agiscono, denunciano, intervengono. Due messaggi di speranza emergono dal saggio e offrono uno sguardo operativamente ottimista sul cosa fare:

  • Non serve convincere la maggioranza delle persone che un’azione sia necessaria, ma è sufficiente agire sui nodi della rete sociale più connessi e autorevoli, in grado spesso con il loro esempio di trainare un comportamento latente.
  • In realtà, ci sono più ribelli morali di quanto siamo disposti a pensare: sta a chi disegna politiche pubbliche o campagne di sensibilizzazione a esaltare, all’interno di un contesto, quei piccoli accorgimenti che aumentano la probabilità di agire.

Non è un libro dei miracoli, né il saggio risolve ogni dubbio: personalmente, infatti, avrei gradito più riferimenti alle ricadute macro di molti esperimenti validi a livello di piccoli gruppi. È pure vero che l’azione volta al cambiamento sociale inizia dal riconoscimento della pluralità di fattori che contribuisce allo stesso e dall’assunzione di responsabilità a livello individuale, anche se il contributo marginale è piccolo o sembra insignificante in un mare di complessità.

​Laurea e PhD in Economia, si occupa di economia sperimentale, di qualità della vita e felicità. Collabora con diverse testate di divulgazione scientifica come lavoce.info, Gli Stati Generali, Infodatablog, Il Sole 24 Ore e ha una passione per la comunicazione scientifica in ambito economico. Responsabile scientifico del progetto AppyMeteo insieme ad Andrea Biancini, insegna economia sperimentale alla Scuola Enrico Mattei e collabora con diverse università. È​ iProf di Economia della felicità su Oilproject.​